Gustav Meyrink – La metamorfosi del sangue. Autobiografia spirituale – Recensione
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Con la cura del sempre encomiabile Andrea Scarabelli, torna in Italia un testo autobiografico su Gustav Mayrink, un importante scrittore “fantastico” (occultista ed esoterista per primo) del secolo scorso (primi del ‘900), ampiamente noto per opere come Il golemIl domenicano biancoLa notte di Valpurga e Il volto verde .

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Jacques Bergier – Io non sono leggenda – Recensione
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In questo periodo di quarantena dovuta al coronavirus, ne ho approfittato per recuperare e terminare la lettura di alcuni testi: tra questi in particolare l’autobiografia dell’autore de “Il mattino dei Maghi” Jacques Bergier dal titolo “Io non sono leggenda”, edito in Italia da Bietti sulla collana l’Archeometro.

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Segnalazione editoriale: La contessa di Marco Spelgatti
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Novità editoriale. La contessa di Marco Spelgatti, Gonzo Editore

In uscita il 26 settembre 2018

Sinossi:

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Arthur Machen – Il cerchio verde – Recensione
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Per i tipi di Providence Press è recentemente uscito l’ultimo romanzo inedito di Machen, uno dei padri del weird e del fantastico contemporaneo, amato da Lovecraft (che si è molto ispirato all’Autore Gallese), ma anche molto legato al tema del Piccolo Popolo: ho recentemente avuto il piacere di recensire altre opere di Machen (praticamente tutte le più note e importanti), rintracciabili al tag dell’Autore su questo sito.

Trama de Il cerchio verde, dal sito dell’editore: Lawrence Hillyer, uno studioso e ricercatore di cose “nascoste”, viene costretto a trascorrere un periodo di riposo a Porth, una località di villeggiatura sulla costa del Galles. Hillyer, persona solitaria e senza amici, troverà “qualcosa” in mezzo a una radura tra le dune (il cosiddetto Cerchio Verde), una presenza che lo seguirà al suo ritorno a Londra… Il Cerchio Verde, pur nella sua brevità come romanzo, è una lettura complessa. Perché Arthur Machen approfitta delle vicende del protagonista, e delle sue ricerche per comprendere il fenomeno che si sta manifestando, per compiere una serie di riflessioni sui propri interessi di appassionato di tematiche occulte; sull’intervento di un mondo etereo che si introduce nella nostra realtà; su un regno dove vive – chissà? – la Regina delle Fate che interferisce con le vicende umane; su qualcosa che è “oltre la soglia” ed entra nel nostro mondo… e non porterà nulla di buono. Questo libro non è per un lettore casuale. Chi apprezza Arthur Machen, troverà in questo volume le ultime riflessioni sul suo interesse al mondo del Piccolo Popolo, tematica che ha sempre permeato l’opera dello scrittore gallese. Che lo porterà a scoprire quello che sarà (tra manifestazioni inquietanti, poltergeist, omicidi misteriosi, possessioni) il destino di Lawrence Hillyer.

L’AUTORE

Il gallese Arthur Llewelyn Jones (1863-1947; Machen era il cognome della madre) è uno dei più grandi maestri della Letteratura fantastica mondiale. Sale alla ribalta alla fine del XIX secolo con i due capolavori Il Grande Dio Pan e I Tre Impostori, e successivamente con Il Terrore. L’influenza della sua opera, dominata dal sovrannaturale e dall’occulto, è stata grande, sia su H.P. Lovecraft che su Stephen King.

COMMENTO:

Il romanzo segue le vicende di Hyllier, in un parallelo con articoli di giornale e lettere di studiosi realmente esistiti, che creano un “cerchio”, come quello che dà nome alla verde radura del titolo, in cui il fantastico e il reale si intrecciano e susseguono senza soluzione di continuità. Accanto ad atmosfere tipiche di Machen, più vicine ad opere “leggere” come Un frammento di vita, rispetto ad opere più cupe come Il grande dio Pan, il lettore si trova ad assistere a una serie di inspiegabili circostanze ed eventi che sembrano celare l’intervento di forze esterne e che Machen pare riportare al tema del Piccolo Popolo e alla presenza di folletti, fate e altre entità accanto al nostro mondo.

Il tema è costante in Machen, così come la percezione di una realtà trascendente concessa a pochi, sognatori e alchimisti in senso metafisico (più che chimico), al punto che pochi sono capaci di cogliere la magia oltre la prosa della vita quotidiana.

Al contempo, ad ancora meno spettatori (forse sfortunati) è poi concesso di interagire con quelle forze che, nella visione dell’Autore, hanno sempre un lato ambiguo e spaventoso, malevolo e terrificante.

Il volume è un interessante resoconto anche di quello che potrebbe essere un primo e dettagliatissimo caso di poltergeist, di cui Machen – frequentatore di ambienti esoterici come la Golden Dawn – dimostra di conoscere i dettagli “scientifici” con precisione: cosa interessantissima, considerando che ciò rivela come già nelle prime decadi del 1900 gli elementi costantemente presenti in episodi di presunti Poltergeist risultino coerenti rispetto a quelli messi in luce ed elencati anche dalla più recente dottrina di parapsicologia [cfr. gli articoli di CSPBO, ad es. l’articolo di Aiazzi sul Poltergeist, oppure “Un possibile caso di poltergeist in Lombardia” di Bruno Severi, Giorgio Cozzi, Stefano Severi e Giuseppe Perfetto, resoconto dell’indagine eseguita di recente in collaborazione tra esponenti del Centro Studi Parapsicologici (Bologna) e dell’Associazione Italiana Scientifica di Metapsichica (Milano) sul n. 2/2011 dei Quaderni di Parapsicologia, del Centro Studi Parapsicologici di Bologna.]

Casistiche in cui Machen, in realtà, con stupore del lettore, dimostra di non credere realmente, pur ricollegando tutto il tema al regno delle Fate, come meglio chiarito nel saggio – contenuto sempre nel volume Providence Press – «In Occlusum Regina Palatium»: il cerchio indicibile di Arthur Machen di Giacomo Ortolani; una postfazione che, per complessità, ricchezza di approfondimento e spessore delle riflessioni, rappresenta un vero e proprio saggio degno della migliore ricerca specialistica in materia.

Il romanzo, in definitiva, con una struttura più solida e convincente di altre opere, offre una piacevole lettura di distrazione che – senza picchi di orrore cosmico – porta comunque sul ciglio del regno delle fate e a indigare sui grandi misteri del paranormale: una lettura necessaria e dovuta per i fan dell’Autore, che troveranno il testamento letterario di Machen in questa ultima opera scritta prima di morire, ma al contempo un interessante spunto di riflessione per chiunque ami la materia del paranormale, a prescindere dall’apprezzamento per la narrativa di genere.

Il volume è di prossima pubblicazione anche in una tiratura LIMITATA E NUMERATA DI 59 COPIE (256 pagine al Prezzo di copertina: 39,00 euro) che conterrà, oltre al romanzo e al saggio di Ortolani citato, alcuni contenuti EXTRA esclusivi dell’edizione Deluxe, cioé i tre racconti inediti di Arthur Machen:
7B Coney Court
dove strane lettere vengono spedite da una casa in cui, teoricamente, non abita nessuno
La luce che non potrà mai essere spenta
dove strani accadimenti colpiscono la città natale di Shakespeare
La strada per Dover
dove una misteriosa sparizione si verifica durante una veglia in una casa infestata.

Per info sulla versione Deluxe (QUI maggiori informazioni)

Caratteristiche del volume in edizione regular: brossurato 14,8×21; 192 pagine; euro 17,90.

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Valerio Evangelisti – Eymerich risorge – Recensione
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Da pochi mesi è uscito un nuovo capitolo della saga dedicata all’Inquisitore Nicolas Eymerich, dello scrittore bolognese Valerio Evangelisti (Ed. Mondadori). L’Autore sembrava aver concluso la saga del suo primo e più celebre personaggio qualche anno fa, con il libro Rex tremendae maiestatis, ma – dopo alcuni anni dedicati a coltivare altri cicli e opere – ecco che fortunatamente Evangelisti ha deciso di far “risorgere” il personaggio.

Personalmente considero il ciclo di Eymerich come un capolavoro imperdibile, l’opera fantastica più riuscita della contemporaneità (italiana e non) e l’Autore, Evangelisti, un genio al pari di maestri come Lovecraft. Il ciclo di Eymerich auspico sia destinato a segnare l’immaginario collettivo a lungo e questo nuovo libro lo conferma.

La scrittura è come sempre snella ma efficace: Evangelisti ha il dono di saper dosare parole e aggettivi e in poche righe delineare alla perfezione scenari e situazioni, come pochi scrittori sanno fare.

Accanto a Eymerich, in questa storia – vero e proprio revival del ciclo – recuperiamo i principali personaggi della saga, come Padre Corona, il notaio Berjavel, e il boia Gombau, oltre al prof. Frullifer (che segna alcune delle parti più comiche del volume). Sul lato fantascientifico, recuperiamo il personaggio di Lilith, proprio dove il precedente libro si era interrotto.

I rimandi ad altri episodi della saga e a personaggi di altre storie sono numerosi e quasi difficili da cogliere sempre, mentre la storia sviluppa la classica quest con indagini e “spionaggio” dal sapore inquisitorio che è la matrice classica delle storie di Eymerich, accanto a scene più horror e a fenomeni sovrannaturali, ai confini con gli ufo, che strizzano l’occhio al weird.

La sola critica che muovo è che verso la fine il testo appaia eccessivamente sbrigativo e leggermente confuso (v. sotto spoiler): viene spontaneo domandarsi se non sia una precisa scelta che presagisca futuri nuovi libri della saga che, personalmente, aspetterò con ardore.

Lettura comunque consigliatissima!

Link: http://www.librimondadori.it/libri/eymerich-risorge-valerio-evangelisti

Segue SPOILER:

SPOILER

Dal titolo era chiaro fin da subito che Eymerich sarebbe risorto, in tutti i sensi. Il libro è la resurrezione figurata del personaggio letterario, ma nel corso della storia il personaggio del protagonista inquisitore – come immaginabile e preannunciato, in piena logica con il sapore della storia – muore e risorge davvero. Proprio il passaggio tra morte e rissurrezione viene francamente gestito da Evangelisti con un salto, non chiaro nemmeno al protagonista della storia, che ancora meno risulta comprensibile al lettore, al punto da creare una difficoltà di comprensione della trama e bloccare la sospensione dell’incredulità. Insomma, proprio la resurrezione di Eymerich, che dà il titolo al libro, è la parte meno riuscita, più confusa e che solleva maggiori domande (non risposte) di tutta la trama. Un vero peccato!

Il mistero di Villa Clara (Bologna)
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A seguito del rinnovo del sito, per cui molte pagine sono andate perse, mi pare doveroso recuperare immediatamente il testo di uno degli articoli più vecchi e amati: la storia della “casa infestata” più celebre di Bologna, “Villa Clara”.

All’epoca in cui scrissi quest’articolo – parliamo circa del dicembre 2006! – non si sapeva nulla di preciso sulla storia della Villa e fui il primo, dopo un pomeriggio speso in ricerche nella biblioteca dell’Archiginnasio, a fare finalmente luce sulla reale dinamica dei fatti… Dopo di allora, tanti mi hanno copiato senza nemmeno citarmi.

Ebbene, di seguito la storia, nell’ordine cronologico in cui io stesso la scrissi e scoprii.

Ogni luogo possiede un patrimonio più o meno noto di storie incredibili, leggende o misteri: Bologna non fa eccezione a tale regola.

In generale, si può osservare come l’Emilia Romagna sia, da lungo tempo, una regione ricca di segreti: celebre è il caso della Rocca di Montebello, vicino a Rimini, meglio nota come il Castello di Azzurrina.

In quel luogo, infatti, si dice che sia morta, secoli fa, una bambina, il cui fantasma abiterebbe ancora la fortezza, al punto da essere stata sentita piangere: addirittura, il suo lamento sarebbe stato registrato con esperimenti di psicofonia.

Probabilmente, alla diffusione di racconti come questi si deve anche la nascita del mistero inerente Villa Clara.

La Villa si trova un po’ fuori Bologna, al n. 449 di Via Zanardi, a poca distanza dalla località Trebbo di Reno. Di fatto si trova in aperta campagna, immersa in campi dove non si spinge nemmeno l’illuminazione stradale e dove, talvolta, si alzano fitti banchi di nebbia. Il visitatore che si spingesse in quel luogo si troverebbe innanzi una casa fatiscente, circondata da un giardino incolto e ipertrofico; scritte sui muri e un cancello più volte rattoppato e sigillato da robusti catenacci. In realtà, la Villa ha mura perimetrali solo nella parte anteriore ed il portone è praticamente sfondato: quindi chiunque potrebbe penetrarvi, chiaramente compiendo un reato. Infatti, tale Villa è proprietà di qualche privato o, più probabilmente, del Comune.

Attorno alla Villa sono sorte, negli anni, strane dicerie, che l’hanno resa oggetto di una vera e propria urban legend. Una leggenda metropolitana non è qualcosa di diverso da una normale leggenda. Infatti, se per anni oggetto delle storie misteriose sono state superstizioni bucoliche e pagane, oggi, in un periodo di globalizzazione che volge lo sguardo ad un mondo sempre più tecnologico, anche le leggende si sono urbanizzate, andando a colpire aspetti assai comuni della vita o realtà molto meno favolistiche o ancestrali. Una comunissima casa di città; un cimitero; le fogne e i cunicoli della periferia, per non parlare di eventuali sottopassaggi o metropolitane: tutti i luoghi, una volta ammantati nell’oscurità di una notte sempre più criminalizzata e violenta, sono scenari perfetti per ambientazioni adatte ai migliori film horror.

In merito a Villa Clara la storia ricalca il clichè classico della ghost story: protagonista è diventata una fantomatica bambina, di nome Clara (sic!). La Villa, si narra, sarebbe stata abitata dalla blasonata famiglia Alessandri. Clara sarebbe stata figliastra del padrone della Villa, un nobile, che l’avrebbe poi murata viva all’interno della stessa costruzione, per punirla di una tresca incorsa tra costei ed un sottoposto del casato. Non trovando pace per la tragica condanna, la giovane Clara si sarebbe trasformata in uno spirito che tutt’ora infesterebbe la Villa, la quale prenderebbe il nome verosimilmente dalla fanciulla stessa.

È di totale evidenza come la storia sia alquanto scontata e, peraltro, non priva di contraddizioni. Seguendo tale formulazione, ci si troverebbe innanzi ad una adolescente, con pruriti amorosi: peccato che il fantasma sarebbe comunemente identificato con una bambina, di qualche anno più piccola.

Altre versioni non si soffermano sul movente del delitto, limitandosi a parlare di questa bambina murata viva, per qualche perversa ragione… Inutile sottolineare le similitudini con la leggenda di Azzurrina, che considero, per tali ragioni, il principale archetipo di tale racconto.

Ovviamente, la Villa è diventata il teatro di avventure e prove di coraggio per molti adolescenti, che vi si recavano per confutare la storia: sperando d’incontrare il fantasma di Clara.

Villa Malvasia 1

Figura 1 : Qui sopra, un’immagine della Villa, come appariva una cinquantina d’anni fa, ancora in condizioni discrete.

 

Sono fiorite, in tal modo, miriadi di narrazioni in tutto identiche alle più banali storie del terrore: si inizia da semplici sensitivi che hanno percepito oscure presenze, a veri e propri eletti cui si sarebbe manifestato il fantasma in persona (rectius: in ectoplasma). Sarebbero accaduti fenomeni inspiegabili, in quella casa: accompagnati, non raramente, da strane voci…

L’apice del grottesco è stato raggiunto dalle immagini realizzate dagli esploratori improvvisati, quasi sempre veri e propri inetti della fotografia, che in un delirio di psicosi sono riusciti a “vedere” le entità più assurde là dove non vi era nulla o – al più – vi erano incrostazioni, muffe, riflessi, etc.

Incuriosito da questa leggenda, ho deciso di fare una ricerca io stesso, arrivando a ricostruire quella che è la vera storia della Villa, originariamente nota come “Casino del Trebbo” e, poi, come “Villa Malvasia”.

Preziose informazioni sull’origine storica della villa sono rinvenibili nel volume “Castelli e ville bolognesi” (BESEGHI; Bologna, 1957):

«IL CASINO DEL TREBBO DEL CANONICO MALVASIA

«Al Trebbo è il casino Malvasìa, meglio, per una indicazione più esatta, esso è alla fine della lunghissima via delle Lame che si protende oltre l’abitato cittadino fino a penetrare nella vecchia località del Trebbo. Trebbo significa incrocio di strade, ma qui le strade sono tante e allora il nome si è esteso a una ben nota località suburbana.

«Al n. 581, dunque, di via delle Lame è uno dei più singolari casini di campagna che le famiglie bolognesi si costruissero fuori dalle mura cittadine e in prossimità a esse. Singolare perchè in esso l’associazione del padrone di casa con l’artista è strettissima e quando il canonico Carlo Cesare Malvasìa, pittore, storiografo d’arte e scrittore, diceva “il mio casino al Trebbo”, affermava un possesso non soltanto materiale ma di padre verso la creatura. Il canonico e conte Carlo Cesare Malvasìa visse dal 1611 al 1693 e nella sua lunga vita densa di studi, di opere e di osservazione, ebbe modo di conoscere e penetrare il mondo artistico della sua città in modo profondo e ampissimo. I suoi scritti sulla pittura e i pittori bolognesi e, soprattutto, la sua Felsina pittrice sono fondamentali per lo studio dell’arte bolognese. »

Villa Malvasia 2

Figura 2 : Qui sopra, il camino della sala al piano superiore.

 

«Al Trebbo il Malvasìa esercitò le sue Conoscenze di architettura e quelle di pittura — era stato allievo di Cavedoni un epigone dei Carracci — disegnando lui stesso il suo casino al Trebbo e lavorando ad alcuni ornati interni. Il bravo canonico nel concepire quel palazzetto lo delineò d’una eleganza semplice, gustosa, con la porta d’ingresso inquadrata fra lesene accoppiate. Le decorazioni riguardano unicamente il piano terreno, ove, cioè, il Malvasia ospitava frequentemente gli amici, studiosi e artisti, e gli accademici Gelati, che nel seicento furono famosi a Bologna. Si faceva musica, poesìa, si discuteva d’arte particolarmente dopo ricchi pranzi. Erano conviti d’intellettualità, di quella intellettualità seicentesca pletorica e acuta. In quel casino molta parte della vita del XVII secolo è passata: era uno degli ambienti più interessanti di Bologna.

«Il luogo era attraente, molto riservato perchè chiuso, e lo è ancora, da mura merlate, con sale decorate dal Dentone, dal Valesio, dal Togni, da Franceschino Caracci e da Angelo Michele Colonna.

«Ora il casino Malvasia al Trebbo, è occupato non da una famiglia che possa curarlo, ma da tante, in conseguenza ancora della guerra. Eppure fra questa gente è vivo lo stupore per le pitture che ornano le pareti e i soffitti, e guardano come a una meraviglia e cercano di conservarle nel miglior modo possibile. Ahimé, se il buon canonico Malvasìa rivedesse il suo amatissimo casino del Trebbo, avrebbe ragione di aggiungere una considerazione amara a quelle liete che occupavano la sua vita e la sua intelligenza.»

Villa Malvasia 3

Figura 3 : Qui sopra, particolare di un fregio dei pannelli che adornano la sala.

 

Questo è quanto più approfonditamente descritto, relativamente alla Villa, nel volume “Ville del Bolognese” (di G. CUPPINI – A.M. MATTEUCCI; Zanichelli, Bologna, II Ed.):

«Villa Malvasia

«Comune di Bologna, Via F. Zanardi 449, proprietà: Alessandri.

«L’Ungarelli e il Beseghi la vogliono costruita dal canonico Carlo Cesare Malvasia (1616-93), noto storiografo della pittura bolognese, ma, se è vero che egli possedette la villa, è altrettanto certo che non a lui si deve ascriverne la costruzione e la decorazione, perché, come ricorda lo stesso Malvasia e come ripete l’Oretti, vi dipinsero artisti che operavano quando il Malvasia non era ancora nato od era in giovanissima età. Ecco le parole del Malvasia: “Nel nostro palagetto al Trebbo [Girolamo Curti detto il Dentone] dipinse il bel soffitto della saletta che per certa sua bizzaria e prova volle dipingere a tempra s’un tavolato di asse di abeto egregiamente commesse e che in ogni modo col tempo han fatto qualche motivo, e in forma di T la doppia loggia in volto a fresco in ciaschedun de’ sfondati, ne’ quali vagamente l’andò dividendo e per ogni balaustrata facendovi colorire varie figure al Brizio, a Tognino ed a Franceachino Carracci, al Valesio e simili allora giovani, non d’altro pagandoli che della sua dolce conversazione ed allegria ad una lieta mensa le feste; godendo essi altresì in tal guisa esercitarsi e svegliarsi; pratica che riuscirebbe a dì d’oggi molto difficile, pretendendo i giovani alle prime pennellate esser già fatti maestri.”

«Non si conoscono le vicende della villa durante il Settecento e l’Ottocento; ai primi del nostro secolo appartenne al Cav. Ferdinando Bonora, che vi arrecò numerosi miglioramenti, e alla cui morte, avvenuta nel 1917, fu ereditata dalla figlia sig.ra Zaida Bonora in Francia. In seguito venduta, la villa passò in mano a vari speculatori che misero a repentaglio la sua conservazione, adibendo la loggia d’ingresso a rimessa di carri da trasporto che venivano fatti entrate per una rampa posticcia; nel 1928 fu acquistata dalla sig.ra Clara Mazzetti ved. Barzaghi che arredò le sale del piano terreno. Oggi la villa è abbandonata e presenta grande necessità di restauri.»

 

Villa Malvasia 4

Figura 4 : Qui sopra, altro particolare dei fregi della sala.

 

Gli autori del libro continuano (ibidem) fornendo una dettagliata ed interessante descrizione dell’elaborazione artistica della Villa:

«La decorazione dei vari ambienti del Casino Malvasia di Trebbo, è, ovviamente, più volte ricordata dall’autore della «Felsina Pittrice». Difficile però, anche in questo caso, la divisione delle parti fra gli artisti citati. Spettano senz’altro al Dentone le architetture dipinte nel soffitto ligneo della grande sala. Di notevole qualità sono i paesi dipinti nel fregio di detto vano, forse da ricondursi a Menghin del Brizio, dato che il Malvasia ricorda l’abilità dal pittore nel batter di frasca. Di fattura assai andante le figure, ora in parte ritoccate, che accompagnano i semplici partiti architettonici della loggia e controloggia. A nostro avviso la mano del Colonna, la cui presenza nella villa è certa, dato che qui si ammalò per l’eccessiva umidità (Malvasia), è forse rintracciabile nelle figure a monocromo del fregio della grande sala, nonché nelle comparse del soffitto ligneo. Più difficile individuare la presenza del Valesio e di Antonio e Franceschino Carracci, pure ricordati dal Malvasia.

«Lo stato di conservazione degli affreschi in alcuni punti è assai compromesso da pesanti restauri.

«Il Malvasia ricorda che l’opera, iniziata prima della decorazione nella Paleotta, venne portata a termine dopo la conclusione dei lavori in quella villa. Dato che in questo secondo momento il Colonna si ammalò, possiamo datare le decorazioni intorno al 1624, anno in cui il giovane pittore torna a Crevenna per guarire dal male contratto.»

Sulla scorta delle informazioni rinvenute è possibile, sinteticamente, riassumere e risolvere la questione.

La Villa comunemente nota col nome di “Clara” ed oggetto di storie di fantasmi, era originariamente nota come “Casino del Trebbo”, proprio perché sorta in prossimità dell’omonima frazione bolognese, peraltro in un punto all’epoca corrispondente al civico n. 581 di Via delle Lame, successivamente diventato il n. 449 di Via Zanardi.

La sua più antica datazione può tranquillamente essere indicata intorno al 1624; successivamente fu arricchita dal suo storico proprietario, Carlo Cesare Malvasia, cui si deve il nome storico – “Villa Malvasia” – e che la fece decorare da insigni pittori bolognesi, fra cui spiccano Colonna e Carracci.

Successivamente la Villa ha subito numerosi passaggi di proprietà, subendo anche vicissitudini che ne hanno compromesso la conservazione, con particolare riferimento alle opere d’arte in essa racchiuse.

Nel 1928 fu acquistata da una certa sig.ra Clara Mazzetti ved. Barzaghi, alla quale probabilmente si deve il nuovo nome attribuito alla Villa, diventata, appunto, “Villa Clara”.

Ritengo, peraltro, difficile che una vedova, in età e condizioni tali da poter acquistare un immobile così ricco, potesse essere una ragazzina o una bambina.

Da ultimo gli autori indicano la proprietà Alessandri: la quale, pertanto, ritengo sia l’attuale proprietà dell’immobile, sempre che, nel frattempo, non siano intercorsi successivi passaggi od il bene non sia stato acquistato o ereditato dallo stesso Stato.

Ritengo, conseguentemente, ancor più improbabile che una bambina di nome Clara sia stata uccisa in tempi così recenti in quel luogo: quantomeno ciò negherebbe comunque la leggenda, che si riferisce ad eventi antichi e riferibili a nobili casati.

È assai più logico che, sulla scorta del solo nome da ultimo attribuito alla Villa (“Clara”) e sulla stessa indicato, nonché riferendosi al cognome della più recente proprietà, sia stata artatamente costruita un’affascinante ed inquietante leggenda, ricalcata sulle più note e diffuse storie di fantasmi, in primis su quella della conterranea Rocca di Montebello e la sua piccola Azzurrina.

Inoltre, la casa sarebbe stata, in anni recenti, palcoscenico di messe nere e di occulte cerimonie: nelle quali la leggenda ha trovato terreno fertile in cui installarsi e crescere.

Nulla di soprannaturale, però, può essere rintracciato in questa storia, rivelatasi pressoché interamente un falso: il vero orrore è che sia stato completamente abbandonato a se stesso, privo di cure o custodia, un simile tesoro di dipinti e antichità.

[CASO RISOLTO]

Alcuni anni dopo che scrissi quell’articolo,  una notizia apparsa su “il Resto del Carlino”, quotidiano di Bologna, precisamente in data 2 aprile 2009, completò le informazioni già da me raccolte tempo prima sulla fantomatica ghost house di Bologna, la “infestata” Villa Clara.

La verità è definitivamente venuta a galla: nessun fantasma, nessuna villa stregata.

Una verità che farà dispiacere a molti… A tutti coloro che non potranno più credere in una leggenda pittoresca, ricordata anche nell’articolo in questione, in una versione che – per la sua collocazione in un quotidiano – vale la pena citare: “La leggenda narra che, ai primi del ‘900, il palazzo ospitasse padre, madre e una bimba chiamata Clara, che pare fosse dotata di poteri di chiaroveggenza: avvisava i suoi genitori di avvenimenti che sarebbero accaduti in futuro, indovinandoci. Si dice che il padre, esasperato e forse intimorito dai suoi poteri, una notte preso da un raptus di follia la murò viva all’interno della casa. Da allora raccontano che in certe notti si senta ancora la bambina piangere, cantare lamentarsi oppure la si veda girovagare in giardino.

Tuttavia, la cosa più importante è che finalmente i preziosi ed antichi dipinti ed affreschi contenuti nella Villa saranno recuperati e salvati!

Dal testo dello splendido ed illuminante articolo apparso, a firma di Nicola Cappellini, risulta in particolare che “I lavori di restauro — realizzati dall’ impresa edile ‘Paganelli e Guidotti’ di Zocca su progetto dell’architetto Stefano Capponi e dell’ingegner Claudio Martini e sotto la supervisione della Sovrintendenza per i beni architettonici — sono iniziati dal tetto, che è stato praticamente rifatto, e stanno procedendo col consolidamento dell’edificio, mentre i circa 400 metri di affreschi che decorano le sale interne sono stati ‘velinati’, ovvero coperti con della carta giapponese, e saranno presto oggetto di un attento restauro. La villa dovrebbe essere interamente recuperata tra un paio di anni, con una spesa complessiva di 3 milioni di euro (e un contributo della Sovrintendenza). I suoi attuali proprietari — la signora Maria Vittoria Bossi e il figlio Zeno Sbardella — sognano di farne un centro per ricevimenti e matrimoni e forse anche una scuola d’arte.

Infatti, ora la Villa, per anni oggetto di vilipendio ed effrazioni, ha dei precisi proprietari, la cui storia – ironia finale – ricalca ancora una volta i cliché della narrativa dell’orrore: perchè, dopo anni, con il testamento di un vecchio parente, l’attuale proprietaria ha scoperto, ignara di tutto, di aver ereditato da un lontano parente la “villa stregata”.

Questi i dettagli dell’articolo: Storia antica e tribolata quella di Villa Malvasia. Non si conosce la data esatta della sua costruzione, anche se è probabile che sia avvenuta tra il 1572 e il 1585. A dirlo è lo stemma di Papa Gregorio XIII, che campeggia sulla sommità del camino nella sala principale. Era infatti consuetudine, a quei tempi, riferire il periodo di costruzione di un edificio appartenente ad un nobile casato proprio al Pontefice regnante in quegli anni. E’ certo, invece, che il suo più illustre proprietario, il conte Carlo Cesare Malvasia, nel suo testamento del 22 dicembre 1692, lasciò il gioiellino di via Zanardi (allora via delle Lame) all’Arciconfraternita della Vita. Ma da quella data in poi la storia del Casino del Trebbo si fa oscura per tutto il Settecento e l’Ottocento. La villa ricompare negli annali delle cronache cittadine nel 1905, quando diventa di proprietà del cavalier Ferdinando Bonora, che apporta numerosi miglioramenti all’edificio e alla sua morte (1917) la lascia in eredità alla figlia Zaida. In seguito, la casa passa in mano a diversi speculatori che ne mettono a repentaglio la conservazione, utilizzando la doppia loggia d’ingresso, disegnata a forma di ‘T’ secondo la tradizionale tipologia bolognese, come rimessa per carri da trasporto che vengono fatti entrare per una rampa posticcia. Quindi, nel 1928 viene acquistata dalla signora Clara Mazzetti (da cui la probabile origine del nome Villa Clara), che fa arredare le sale del pian terreno. E nel 1954, finalmente, viene acquistata dal padre dell’ingegner Alessandro Alessandri. Quest’ultimo, uomo profondamente religioso e tormentato dai sensi di colpa per un amore di gioventù osteggiato dalla famiglia, alla morte del genitore eredita un cospicuo patrimonio (127 immobili), di cui però si cura ben poco nel corso della vita. Cominciano così gli anni del declino della palazzina, complicati dalla fama di ‘villa maledetta’. Fino all’ultimo colpo di scena. Nel 2004, alla morte dell’ingegnere, la casa viene ereditata dalla signora Maria Vittoria Bossi, che scopre solo all’apertura del testamento di essere la figlia di Alessandri e di quel suo perduto amore. Sarà lei a salvare Villa Malvasia.”

La leggenda è giunta a conclusione: ora, ai curiosi, non resta che attendere il restauro e la futura apertura al pubblico della Villa, per poterla finalmente ammirare, senza paura di compiere reati… Almeno che non vogliano scappare senza pagare il conto! 🙂

Francesco Brandoli

Casino trebbo