Recensione Film: Abigail
Abigail è la storia di un gruppo di criminali che si ritrova coinvolto nel rapimento di una bambina, che poi scopriranno essere un vampiro, col risultato di essere loro intrappolati e prede. Dovevo vederlo.
Leggi tuttoAbigail è la storia di un gruppo di criminali che si ritrova coinvolto nel rapimento di una bambina, che poi scopriranno essere un vampiro, col risultato di essere loro intrappolati e prede. Dovevo vederlo.
Leggi tuttoVoglio dire anche io la mia su questo film, in una recensione – non recensione e senza spoiler, perché ritengo che ormai non ci sia nulla da spoilerare…
Dopo lunga attesa, ecco finalmente il film di It, prima parte di una versione in due capitoli che, per la prima volta al cinema (la miniserie degli anni ’90, che resta un cult non scalzato da questa moderna, era apparsa in TV e home-video), si offre di mostrare in pellicola le vicende dell’omonimo romanzo di S. King.
Il film ha un cast giovanissimo, in cui tutti sono molto bravi: unica critica è il personaggio di Richie, che nel libro è caratterizzato molto bene, con mille vocine e sotto-personaggi buffi, e per cui hanno scelto l’attore più noto (per Stranger Things), Finn Wolfhard. Ebbene, il personaggio è in effetti sboccatamente divertente, ma molto banalizzato e appiattito rispetto alla fantasiosa idea originale: francamente pare che non sia stato fatto alcuno sforzo per sviluppare il personaggio.
Questa prima metà si concentra sulla parte ambientata nell’infanzia dei protagonisti (ambientazione anni ’80 in questa versione per renderla più contemporanea) ed il film in sé si può considerare carino: nella misura in cui l’opera di King è in realtà un grande e corale romanzo sull’infanzia e la bellezza dell’estate giocando con gli amici all’aperto e sull’importanza della grande e vera amicizia, ecco che questo film centra abbastanza il bersaglio, offrendo una pellicola molto comica e divertente.
Tuttavia, It non è i Goonies e questo film non era un remake di “Scuola di Mostri”, come si potrebbe essere portati a pensare quando si esce dal cinema…
It ha una seconda componente che è quella dell’orrore: sia l’orrore cosmico e assoluto, nel senso più Lovecraftiano (che il romanzo omaggia), sia quello delle paure inconsce, delle piccole psicosi, che globalmente investono il sistema sociale e diventano un ricambio costante di impulsi con il substrato urbano. Perchè, infatti, nella visione di King, alcuni posti sono il male e il male crea i luoghi e le persone, se non sai affrontarlo (e qui mi limito a una parola, con tutti i simboli e le metafore, anche filosofiche e religiose che seguono: “tartaruga”. Simbolo ben presente nel film, anche se buttato in mezzo un po’ a casaccio).
Su questa seconda componente il film penso manchi clamorosamente il bersaglio: qualche scena d’effetto c’è, ma in generale la storia si discosta da quel clima di terrore che aleggia nelle pagine e nella versione anni ’90, offrendo a tratti splatter fine a sé stesso, ma calando di intensità e atmosfera.
Soprattutto, è il finale a deludere, e qui segue un piccolo SPOILER…
Ho detto SPOILER…
Soprattutto il finale scivola in un clamoroso ennesimo “tarallucci e vino” in stile USA: Pennywise – in una sala dove tutti i bambini scomparsi (non mangiati?) letteralmente “galleggiano” (volano?) – viene letteralmente saccagnato di botte dai perdenti, i ragazzini riuniti fra loro, mentre nel romanzo – cosa in cui anche la pellicola anni ’90 aveva fallito – c’è una poetica visione di un rito magico per instaurare un legame mentale con il mostro e distruggerlo sconfiggendo le paure nel legame con gli amici e gli affetti profondi. Una metafora perfetta di quello che nella vita è il continuo duello con i mali e i problemi reali, che nuovamente si perde nella trasposizione su pellicola del libro.
CONCLUSIONE: Insomma, il film in sé è carino, ma non è affatto una trasposizione fedele del romanzo, come ci avevano illuso, e francamente lo ritengo un’occasione persa per fare di meglio, perché davvero il film delude e non convince.
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Mercoledì con cinema a 2 euro e uscita nelle sale di King Arthur: potevo non vederlo e farvi avere un commento? NO!
Siamo di fronte all’ennesimo film che reinventa il mito di Re Artù, di fatto con una storia che non c’entra quasi nulla con il mito originale, salvo prendere in prestito dei nomi e vagamente dei topoi narrativi (in primis la spada).
Il film, sicuramente un fantasy, è nondimeno il tipico film di Guy Ritchie, che ne mescola i suoi classici stili, con gag comiche, scenette ricche di flashback e uno stile da “gang da strada” abbastanza pulp e contemporaneo, tutti elementi che peraltro annullano totalmente la fedeltà storica del film.
Del resto, molti attori e personaggi sono neri o asiatici: elemento che sicuramente aumenta la contemporaneità e la “correttezza politica” del film, ma che maggiormente stride con una realtà storica in cui di certo queste etnie erano minoranze, sempre che ci fossero nella Bretagna dei primi secoli!
Il film inizia con alcune brevi frasi scritte che ci introducono nella trama: dopo circa 20 secondi, pertanto, riceviamo la dichiarazione ufficiale che il film è una VACCATA. Ritchie si è divertito a pisciare su Sherlock Holmes (peraltro con un paio di film molto piacevoli e che comunque centravano lo spirito di fondo del personaggio); ha pensato bene questa volta di procedere direttamente con carichi pesanti, scaricando chili di feci sul mito Arturiano.
Se si vuole buttare via subito qualsiasi pregiudizio o desiderio di fedeltà, allora è possibile procedere con il film, che peraltro è un fantasy piacevole e ben realizzato: scocciava tanto inventare una storia originale o non avrebbe attirato pubblico senza il nome altisonante o ancora si temeva che i riferimenti fossero troppo evidenti?
VISIVAMENTE il film è bellissimo. Bellissimi gli scenari e affascinanti i costumi, per quanto storicamente assurdi e molto simili a capi di alta sartoria contemporanea. Ottime anche le musiche, sempre eccellenti nei film di Ritchie.
Arthur è anche fin troppo spavaldo per i miei gusti: ridicolo il modo in cui cammina da vero gangster trascinando la spada con la punta a terra, in uno scoppiettio di scintille… Tanto è Excalibur, mica si rovina il filo, no?!
Comunque, ciò chiarito, per proseguire devo necessariamente fare una serie di minimi SPOILER perché altrimenti è impossibile parlare oltre di questo film.
Ripeto. Seguono possibili SPOILER.
Jude Law è Vortigern, per l’occasione diventato fratello di Uther Pendragon. Pratica la magia, su una torre che edifica per avere potere e su cui campeggiano spesso delle fiamme che richiamano molto l’occhio di Sauron del Signore degli Anelli (visivamente richiamato in molte, troppe, scene, anche con aquile e olif…ehm, elefanti giganti). Nella cantina allagata tiene la strega Ursula de La Sirenetta, progenie di Cthulhu, che gli da poteri magici capaci di trasformarlo in un clone del Death Dealer di Frazetta.
Arthur estrae la spada dalla roccia e quindi diventa capace di combattere a velocità e forza supersoniche: quando impugna la spada, con un effetto molto simile a quando Frodo indossa l’anello nei film di Jackson, di fatto va a una velocità che manco Neo in Matrix gli starebbe dietro e può seccare 40 nemici in 30 secondi.
Arthur, a capo di una banda di malviventi in tipico stile Ritchie, che ricorda molto Robin Hood, si rifugia quindi con i pochi maghi rimasti (fra cui una Maga – Morgana? – che controlla animali, uccelli e serpenti, che pare uscita da Naruto) nella loro tana nella foresta di Sherwood (o in un posto molto simile), dove uno degli attori più noti de Il trono di spade (Dito Corto) impersona un alter ego proprio di Hood, visto che scaglia frecce a 175 m di distanza a occhio nudo, senza mancare un bersaglio.
In questa bella accozzaglia di roba rubata a casaccio da qualsiasi fantasy vi venga in mente, ecco che in pratica Arthur si pone a capo dei ribelli per sconfiggere Darth Vortigern… Il resto ve lo lascio immaginare e/o vedere al cinema.
Botte da orbi, mostri e duelli in pieno stile videogame… Un maestro di Arti marziali cinese che chiaramente allena Arthur fin da bambino, rendendolo meglio di Chuck Norris… Strizzata d’occhio finale che ci fa intravedere la tavola rotonda, promettendoci forse futuri seguiti di cui, francamente, non sentiamo troppo il bisogno (specie se avremo Merlino impersonato da Samuel Jackson, che allo stato mi pare lo scenario più probabile).
Insomma… Una porcata che però, tutto sommato, costituisce un film che si può gustare per due ore senza troppe pretese, ma che ci porta lontanissimi dal capolavoro che fu Excalibur di Boorman nel 1981. Consiglio di recuperare quella vecchia pellicola a chi ancora non la conosca e sfruttare così meglio quelle due ore di tempo.
N.B. L’articolo contiene spoiler sulle trame dei romanzi di Ring e Dracula.
In anni abbastanza recenti, un vasto successo nel campo del horror è stato raggiunto dal ciclo di Ring: un fenomeno di massa nato in Giappone, inizialmente come romanzo e successivamente come fortunata serie di pellicole cinematografiche, composta di ben tre episodi, a cui sono seguiti due remake hollywoodiani – il primo del celebre Gore Verbinsky – e di cui, anzi, esce proprio oggi, nelle sale cinematografiche italiane, un terzo capitolo (con regista F. Javier Gutiérrez).
Le pellicole cinematografiche, come spesso accade, ancor più dei romanzi, hanno sancito la fortuna della storia e del suo autore a livello mondiale. Sono, infatti, ulteriormente seguite edizioni in tutto il mondo del romanzo, fino alla punta di un milione di copie vendute: in Italia il primo libro della serie, pubblicato dalla Editrice Nord (Milano, 2003) ha esaurito in un solo mese la sua prima tiratura, richiedendo una ristampa immediata.
È presto per sapere se l’incredibile successo di Ring sia soltanto un “fuoco di paglia”, un entusiasmo momentaneo destinato a essere dimenticato al più presto, oppure se resterà perpetuamente nell’immaginario horror, diventando addirittura un “classico”. Infatti, nell’arco di pochi anni l’entusiasmo iniziale per la serie si è assopito, salvo risvegliarsi anche in tempi recenti con, appunto, il progetto di un nuovo film; ciò nonostante, la serie in esame, insieme alla simile pellicola Grudge, ha sicuramente nutrito un interesse per il cinema horror nipponico che pare persistere negli anni e che una volta era sconosciuto, mentre alcune scene di the ring persistono ad apparire come “citazioni” in moltissime parodie e opere derivate, restando indelebilmente impresse nell’immaginario collettivo, almeno di genere.
Tutti gli elementi sin qui elencati potrebbero far propendere per una risposta affermativa alla domanda posta poco sopra e il fatto stesso che la storia di Ring sottenda una sottile critica – nemmeno troppo velata – al mondo della comunicazione di massa, al modello di “controllo sociale” che gli strumenti dell’informazione hanno sull’opinione pubblica, potrebbe segnare un punto di forza di tale opera dell’ingegno. I mass media hanno contribuito a diffonderne il messaggio alle masse che, per suo tramite, sono state allarmate nei confronti di quello stesso strumento da cui avevano ricevuto il primo impulso, il tutto in un circolo vizioso di “attivazione” delle coscienze che è difficile bloccare.
Il nucleo della storia ci spinge a riflettere e a ripeterci: “Stuzzicato dai mass media ho letto un libro che mi mette in guardia dal potere di controllo sulle coscienze che i mass media stessi hanno; il modo in cui tale problema mi si è rilevato è una dimostrazione della realtà e dell’efficacia di tale fenomeno.” Questo potrebbe pensare un qualsiasi lettore di Ring: il risultato finale è a tutto vantaggio del romanzo – e della sua storia – che non sarà facilmente dimenticato.
Ebbene una simile fortuna, nonché una fama tanto potente, porta a ripensare a quello che è il più grande capolavoro della letteratura gotica di tutti i tempi: Dracula di Bram Stoker.
Quest’ultima opera – all’occhio di un osservatore attento ed esperto della materia – presenta più di un punto di contatto con Ring di Koji Suzuki. Vale dunque la pena esaminare questi aspetti peculiari delle due opere, con una fondamentale premessa: si sconsiglia la lettura a chi già non conosca le due opere – la loro trama – e volesse leggerle in un futuro prossimo, perché la suspense e la integrità della narrazione ne rimarrebbero irreversibilmente lese da una serie di spoiler inevitabili.
In primo luogo si può esaminare la somiglianza tra le strutture narrative dei due romanzi: Dracula inizia con il giovane Jonathan Harker in viaggio su una carrozza; presto egli si trova catapultato – suo malgrado – in una storia tragica, ricca di morte e terrore sovrannaturale, nella quale svolgerà un ruolo non marginale. Egli è il solo a scoprire l’esistenza di un male pestilenziale capace di diffondersi su tutta la terra, personificato nella figura del conte Dracula. I personaggi di Dracula nulla potrebbero ottenere senza un lavoro di squadra, un continuo spostarsi fra luoghi e situazioni alla ricerca di ulteriori “tasselli” del misterioso “mosaico” che cercano di rivelare al mondo. Soprattutto tali personaggi sarebbero impotenti senza l’aiuto di un personaggio qualificato: un soggetto dotato di quella genialità e di quelle doti umane e intuitive necessarie per affrontare un essere demoniaco e mostruoso come il vampiro Dracula; tale è la figura di Abraham Van Helsing, medico esperto di occulto e caparbiamente ostinato a combattere il male nella sua forma incarnata.
Dettagli ulteriori di non poco momento sono l’inserimento nella trama di un fondamentale personaggio femminile e riluttante – la moglie di Harker, Nina – e la morte di uno dei personaggi della “task force” anti-vampiro, poco prima della conclusione del romanzo.
Inoltre, si può sottolineare il paragone esistente tra la fobia per il vampirismo e quella per le malattie, i virus e le pestilenze, difficili da individuare e da fermare e capaci di diffondersi a macchia d’olio ovunque (il modello dell’epoca – XIX secolo – è chiaramente la sifilide).
Vediamo ora la struttura di Ring: l’opera inizia quasi subito – non le primissime pagine, ma poco dopo – con il protagonista, Asakawa, che si trova su un taxi – la carrozza moderna potremmo dire – e che viene – come Harker – catapultato in una serie di morti e orrori sovrannaturali, quale unico conoscitore dell’esistenza di un male – anche qui – “pestilenziale” capace di diffondersi ovunque e sterminare le persone.
La metafora del virus in Ring è esplicita fin dai primi capitoli e perdura fino alla conclusione del romanzo e non solo: nel seguito della storia – il romanzo Spiral, conosciuto in Italia sempre grazie alla Editrice Nord (Milano, 2004) – si viene a sapere, senza alcun margine di dubbio, che il “male”, protagonista negativo della storia – la causa di tutte quelle morti – è proprio un virus, simile ad una mutazione del vaiolo.
Continuando coi parallelismi rispetto a Dracula, ritroviamo in Ring il lavoro di squadra di tutta una serie di personaggi, in continuo spostamento, alla ricerca di sempre maggiori informazioni che permettano di debellare il male; ed anche in Ring è necessaria la comparsa di un personaggio “qualificato”, caratterizzato da particolare caparbietà e intuito: l’amico di Asakawa, Riuji Takayama. La sua tenacia è immediatamente messa in risalto: l’uomo non teme minimamente di vedere la videocassetta “stregata o maledetta” – il veicolo di diffusione del virus ring – che porta alla morte dopo sette giorni esatti dall’istante in cui la si è guardata, bensì è entusiasta all’idea di esserne spettatore e di affrontare la lotta contro il male.
Riuji Takayama è, inoltre, un professore di Filosofia (di Logica, per la precisione) laureato anche in Medicina: insomma un medico/filosofo particolarmente intelligente, astuto ed intuitivo, proprio come Van Helsing.
Tali caratteristiche saranno altrettanto evidenti nel protagonista di Spiral, Mitsuo: egli, infatti, è un medico legale[1] che, nel corso dell’autopsia di Riuji, viene a sua volta attratto nella “lotta al male”. In Ring, poi, come in Dracula, alcune vittime innocenti sono colpite dal male – richiedendo una maggiore urgenza d’intervento al protagonista, che non deve più soltanto salvare sé stesso – e, in parallelismo evidente con Dracula, si tratta proprio della moglie e della figlia di Asakawa (Harker della situazione).
Infine, poco prima della conclusione del romanzo, anche in Ring come in Dracula, muore uno dei personaggi: si tratta di Riuji Takayama (che però si scoprirà tornare in vita nel seguito del romanzo).
All’origine del male c’è sempre un personaggio sovrannaturale che agisce dal “regno dei morti”: il vampiro è un nosferatu, un non morto; all’origine del virus ring c’è il rancore di una donna morta[2] di nome Sadako Yamamura, dotata di peculiari facoltà di preveggenza e poteri E.S.P. di vario genere.
In definitiva, si potrebbe dire che il segreto del successo di Dracula e di Ring sia la struttura comune della storia; anzi, essa potrebbe essere il segreto per scrivere romanzi horror immortali come i mostri che li popolano…
Si prenda un personaggio, trasportato da un qualche vetturino, lo si catapulti in un mondo minacciato da un male sovrannaturale di natura morbosa/patologica e lo si faccia interagire con una task force di personaggi accomunati dall’intento di debellare questo “nemico”; si inserisca un personaggio particolarmente sicuro di sé e intelligente (richiesta almeno una laurea, possibilmente in medicina); si facciano spostare i personaggi in ambienti e scenari vari alla ricerca di dettagli o informazioni utili a sconfiggere il loro avversario; si crei la minaccia per la moglie del protagonista e si faccia morire uno dei personaggi principali poco prima della conclusione; ricordarsi di far aleggiare un’ombra di panico e terrore sul destino dell’intera umanità e “lasciar cuocere il tutto a fuoco lento”. Ecco la ricetta del romanzo horror perfetto.
Eppure, al di là delle banalità e della facile ironia, ci si potrebbe chiedere quanto Suzuki e il mondo siano coscienti del paragone evidenziato in queste pagine.
Più in generale viene da domandarsi quale sia il fascino magnetico che l’orrore da sempre esercita su di noi, attraverso le arti più varie: H.P. Lovecraft sosteneva che la paura sia il sentimento più antico e forte dell’animo umano e la paura più grande sia quella dell’ignoto[3]; certamente il solitario di Providence ha praticato con successo questa posizione, dal momento che gran parte dei suoi orrori sono privi di descrizioni precise e richiamano atavici timori sulla possibile esistenza di esseri (divinità/gods) superiori all’uomo e sconosciuti ai più.
C’è chi (si veda “La stirpe di Dracula” di Massimo Introvigne, Mondadori, 1996) sottolinea come le opere dell’orrore, creandoci paura e terrore, generino adrenalina e in generale vadano a sostituire l’assenza di quelle esperienze di caccia o sopravvivenza estrema che un tempo caratterizzavano la nostra esistenza (in quanto animali) e che il nostro evolverci (come esseri umani, ma anche come società e tecnologia) ha lentamente eclissato: nei momenti in cui ci dilettiamo spaventandoci con l’orrore, sono ripristinate importantissime funzioni basilari del nostro organismo, altrimenti non sublimabili in altre forme[4].
Personalmente ritengo che nella quotidianità si incontrino persone false e grette, materiali e maliziose; si vivano situazioni scomode (liti; omicidi; violenze; soprusi di ogni genere; etc.) e si vedano orrori terrificanti (bambini del Terzo Mondo malati e denutriti; guerre; atti di terrorismo; etc.) completamente dovuti e causati dall’uomo e che continuano a perpetuarsi esclusivamente a causa sua.
L’idea di un male esterno o alieno, personificabile in qualcosa di non-umano e possibilmente che può essere distrutto/ucciso dall’intervento eroico di un umano, è sicuramente un pensiero più consolante e catartico del doversi confrontare con una realtà che appare invece pullulare di devianze e orrori che alcuna logica spiegazione sembrano avere all’infuori della matrice umana. Un simile elemento di auto-riflessione e di catarsi è insito nelle emozioni che l’horror e la paura ci trasmettono ed è il suo reale potenziale, nonché il suo magnifico ruolo.
Certamente una funzione così essenziale della letteratura horror è l’altro grande elemento di successo che è racchiuso in un qualsiasi romanzo del genere: per quanto riguarda Dracula e Ring non si creano dubbi in proposito. Oltretutto, tanto in Ring, quanto nel seguito, Spiral, è proposta tutta una serie di riflessioni sulla società, l’uomo e il suo destino escatologico di rilevante suggestione.
Ritornando invece agli aspetti complementari delle due storie, vorrei sottolineare ulteriormente l’importanza dei due protagonisti reciproci e principali: Harker e Asakawa. Entrambi rivestono un ruolo di spicco nell’ordito del rispettivo romanzo; la prima parte delle due opere è dedicata esclusivamente a loro.
Inoltre, sul complesso del racconto, entrambi compaiono per un periodo quantitativamente o qualitativamente maggiore, ottenendo un posto d’onore non concesso ad altri personaggi (nonostante in Ring il distacco fra le figure di Asakawa e Riuji sia meno marcato, in quanto co-protagonisti a tutti gli effetti). Entrambi, inoltre, ricompaiono nel seguito del romanzo, dove si scopre che Riuji si è alleato con Sadako Yamamura; al secondo, quindi, sembra quasi essere riservata una maggiore centralità nell’ordito complessivo della trama, come articolata su i due romanzi: Ring e Spiral. Tuttavia, Riuji è una figura negativa, di cui frequentemente sono messi in luce aspetti nefandi – come l’essere egli probabile autore di alcuni stupri – che in generale fanno essere qualitativamente preminente la figura di Asakawa, vero eroe tragico della serie.
Entrambi i romanzi, inoltre, si concludono con un lieto fine: in Dracula gli eroi hanno sconfitto il male e i coniugi Harker hanno avuto un figlio cui è attribuito il nome “Arthur”, lo stesso del personaggio morto combattendo contro Dracula, che va quasi a sostituirsi al defunto, volendo ricreare idealmente il gruppo al completo, come era all’inizio del romanzo, quasi che nessuno fosse realmente morto e il male non avesse avuto il minimo vantaggio.
In Ring la conclusione è impregnata di una “minaccia apocalittica” incombente sull’umanità, ma lascia presagire che il protagonista riuscirà a salvare la moglie e il figlio, avendo compreso “l’esorcismo” necessario a debellare la maledizione letale della videocassetta, creando quindi una sensazione di soddisfazione nel lettore, una convinzione di vittoria del bene sul male. Tale speranza è, però, smentita nel secondo romanzo della serie, in cui si appura che i due innocenti familiari del protagonista sono morti.
In generale Spiral segna un contrasto col modello classico: c’è una vittoria del male; persino Asakawa muore, mentre Riuji e Sadako si profilano come annientatori dell’umanità e futuri signori della terra – nonostante una piccola parentesi di speranza lasciata aperta per il lettore più sognatore e idealista. Tuttavia, questo è un altro problema, che non va a toccare le similitudini esistenti tra Ring e Dracula, essendo Spiral, di fatto, un romanzo autonomo, tra l’altro di minor successo rispetto al predecessore, quasi a dimostrare la validità della struttura degli altri romanzi come formula segreta del successo, che, se abbandonata, porta alla disfatta.
Ad ulteriore conferma di quest’ultimo assunto, mi preme evidenziare come successivamente l’autore nipponico sia stato quasi costretto a scrivere un terzo capitolo della sua fortunata serie: Loop (Ed. Nord, Milano, 2004), il quale riapre interamente la trama della trilogia, ripristinando un ottimismo e una positività di fondo che si era abbondantemente smarrita nel secondo capitolo della saga. Un terzo libro che, peraltro, è opinione dello scrivente, potrebbe sempre prestarsi a un ulteriore seguito…
Personalmente ritengo Dracula il massimo capolavoro letterario, non solo in ambito gotico; ho comunque trovato molto affascinante ed emozionante Ring, dovendo ammettere che Spiral è in buona parte ancor più suggestivo e accattivante del suo predecessore, ma rovinandosi nel finale che ne segna un tracollo e in definitiva lo lascia perennemente secondo (non solo cronologicamente, ma anche come “classifica”), se non addirittura terzo, dopo la pubblicazione di Loop. Quest’ultimo, tuttavia, è un romanzo di genere e ambientazione completamente diversa dai primi due: è pressoché assente l’atmosfera horror e, anzi, il romanzo si può pacificamente definire di fantascienza – e di alto livello!
Interessante è, inoltre, una comparazione tra lo stile dei due autori (Stoker e Suzuki). Dracula è indiscutibilmente un romanzo epistolare, per quanto parzialmente sui generis: nel testo si susseguono pagine di diario, lettere, articoli di quotidiani, dattiloscritti, etc. La trama si snoda, quindi, attraverso la percezione soggettiva e diretta dei protagonisti delle vicende (nonostante non sia, appunto, una prospettiva unitaria di un singolo individuo) e la cadenza delle vicende è puntualmente fissata nello spazio e nel tempo in base all’intestazione dei contributi dati dai personaggi: data, luogo, provenienza.
Ring non è, al contrario, un romanzo epistolare: ciò nonostante è scritto con l’indicazione precisa delle date e dei luoghi (persino delle ore); inoltre, sono spesso inserite le riflessioni dei personaggi in prima persona (in corsivo, nel testo stesso del racconto, riecheggiando lo stile di Stephen King), cosicché è trasmessa tutta una serie di emozioni, sensazioni e percezioni soggettive che caratterizza anche lo stile di Stoker in Dracula e rende più coinvolgente la lettura e l’immedesimazione nelle vicende.
Per concludere, non voglio affermare che le due opere siano identiche, né che Suzuki abbia imitato Stoker; sono certo che anche il lontano confronto tra le due opere potrebbe far trasalire i fanatici di una qualunque delle medesime (più probabilmente gli “elisabettiani” amanti di Dracula, mentre i fans di Ring potrebbero essere lusingati dal paragone).
Eppure sono convinto di aver notato similitudini sfuggite ai più e di aver sollevato una tematica suggestiva e intrigante: se ho fortuna potrei aver colto il segreto del successo immortale di un’opera, almeno dell’orrore, individuando la ricetta del “perfetto” romanzo horror, come un sommelier che ne intuisca gli ingredienti gustandone i sapori.
Sapori d’alta cucina, nel caso di Stoker, ricca di tradizione, ma che cede sempre il desiderio all’assaggio di nuovi intriganti proposte, come quelle dal gusto orientale di Suzuki.
[1] Pare che sempre più spesso nella letteratura moderna si stia comprendendo la funzionalità di un personaggio che sia medico legale: egli è uno dei primi soggetti che viene attratto nell’orbita di un crimine (una figura qualificata, che redige un referto e che partecipa ad indagini e processi); è in genere una figura “colta” e anche rispetto a realtà occulte e paranormali può rivestire ruoli importantissimi. Si pensi a Van Helsing o al dottor Victor Frankenstein (del romanzo Frankenstein di Shelly) come esempi di medici “puri”; alla nota Kay Scarpetta (di Patricia Cornwell) o alla televisiva Dana Scully di X-files – come, specificatamente, medici legali.
[2] È da evidenziarsi come anche la stessa Sadako Yamamura torni in vita nel seguito del romanzo, Spiral, quale primo esemplare di una razza mutante ermafrodita capace di auto-riprodursi e bramante la conquista del mondo intero, in sostituzione del genere umano.
[3] H.P.Lovecraft, Supernatural Horror in Literature, 1927; in it. “L’orrore soprannaturale nella letteratura”, Ed. Sugarco, 1994.
[4] Si può ribaltare la critica comunemente mossa ad un certo tipo di “violenza” – preferirei parlare di “aggressività” – generalmente mostrata da mezzi di comunicazione/intrattenimento (cinema, televisione, fumetti etc.): molto spesso un certo tipo di “aggressività” permette di liberarsi di tensioni e pulsioni innate e fortemente radicate in noi; la si potrebbe definire una “sana aggressività”, dotata di effetti taumaturgici e catartici. È molto meglio vedere un assassino in un film, e liberare le pulsioni durante la visione di una pellicola, piuttosto che essere realmente degli assassini e raggiungere punti di collasso emotivo che portino a delinquere davvero. Troppo spesso si sente di omicidi commessi in stato emotivo o passionale (condizione che, giova ricordare, non rileva penalmente come attenuante o esimente) e viene da domandarsi se davvero gli autori di quei delitti siano stati istigati dalla televisione o piuttosto avrebbero potuto liberarsi di alcune cariche negative guardandola (e sarebbe stato meglio, dunque, l’avessero fatto).
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Recupero la mia vecchia recensione di Star Wars – Episodio VII che è andata persa dopo la ristrutturazione del sito.
Star wars. Voto 7 come il numero di episodio. Niente spoiler per non rovinare il film a nessuno. Avremo tempo per i chi ha fatto cosa. Il 7o capitolo è più un remake (reboot?) del 4o (per me primo) episodio che qualcosa di nuovo. Piacevole, ma siamo lontani dai livelli epici cui Lucas ci ha abituato (episodio 3!). Troppi cliché e cose già viste (tranne una davvero bella quasi subito). Credo (spero) che questo film fosse solo un assaggio, un ponte che apra la strada a nuovi personaggi e storie per il futuro. Se no, vuol dire che la Disney ci prende tutti per il culo; oppure che ha finito le idee (e allora saremmo davvero rovinati). Buona visione a tutti e che la forza sia con voi!
The Boy è un film Horror/Thriller del 2016, incentrato sulle vicende di una ragazza che, anche per sfuggire a un ex stalker, si trasferisce nella villa inglese di una famiglia per fare da baby sitter al figlio della coppia, desiderosa di una vacanza.
Giunta in loco, la ragazza – la bella Lauren Cohan di The wlaking Dead, vero pregio del film – scopre che i genitori sono eccentrici (pazzi) signori che, perso il figlio ancora bimbo, lo hanno sostituito con un bambolotto, che vestono, nutrono, mettono a letto etc…
La villa è visitata solo da un fattorino tuttofare che li aiuta a tenere dietro alla consegna di spesa e smaltimento rifiuti e che di fatto diventa il comprimario maschile della storia.
Accudendo il bambino (Pupazzo) si deve seguire una lista di regole semplici ma efficaci che, se se violate, fanno arrabbiare il bambolotto…
Da qui seguono spoiler.
SPOILER
Il film sembra scivolare in una classica ghost story in cui il bambolotto sia posseduto dallo spirito del bambino morto, con atmosfere e stili che ricordano vagamente Annabelle, Chucky e The others (il bambolotto è timido e non fa cose strane se non sei fuori dalla stanza, impossibilitato a osservarlo).
Il dubbio che un po’ echeggia per tutto il film si scopre verso la fine, quando c’è la conferma che il bambino non è mai morto, ma è diventato un adulto quasi più pazzo dei genitori che vive nascosto fra i muri della Villa, dentro gallerie e passaggi segreti, osservando tutto e di fatto compiendo le mosse e gli spostamenti del bambolotto che lo impersonerebbe bambino… Il tutto con il volto celato da una maschera identica al viso del bambolotto e che, per un istante, lo fa quasi sembrare un enorme bambolotto a sua volta.
Dopo la solita lotta fatta di fughe e accoltellamenti vari, in cui non muore nessuno nonostante un lavoro degno di Giulio Cesare, la ragazza fugge, lasciando un finale aperto in cui scopriamo che il “bimbo” è ancora vivo nella villa… Pronto per un sequel di cui francamente non si sente il bisogno.
Somnia (Before I wake) è un film horror del 2016 (diretto e scritto a più mani da Mike Flanagan) incentrato sulla vicenda di un bambino orfano, perennemente affidato a famiglie diverse (che subiscono varie tragedie), di fatto capace di dare vita, in forma materiale, ai suoi sogni e ai suoi incubi… Con il risultato che, se i sogni sono bellissime farfalle meravigliose e permettono di riabbracciare persone care e rivivere momenti passati, gli incubi sono la personificazione di un mostro – “l’uomo cancro” – capace letteralmente di divorare la gente.
L’idea non è nuovissima – concettualmente ricorda “Nightmare” – ma è gestita in maniera originale e conturbante.
Il cast (Thomas Jane e Kate Bosworth) non brilla, nonostante faccia il suo lavoro egregiamente: il bambino protagonista (Jacob Tremblay) è bravo e penso lo rivedremo presto in altre pellicole.
Il film è piacevole, nonostante siano pressoché assenti scene di terrore vero e non conceda particolari tremori o salti sulla sedia.
La trama, costellata di personaggi dalla psiche al limite col patologico (e discutibili come genitori), tende a una involuzione che porta a domandarsi “dove andranno a parare” con il dubbio che finisca tutto in uno dei due modi classici del vicolo cieco: “tarallucci e vino” o “vaccata”.
Da qui seguono possibili spoiler…
Di fatto il finale fonde assieme le due paure precedenti, finendo in un “tarallucci e vino” che è anche “vaccata”: non si chiarisce quasi nulla, né è chiaro il destino dei personaggi, ma veniamo rassicurati (?) che tutto è tornato più o meno alla normalità (?!).
Di fondo tutto gira intorno a una personificazione del cancro che ha divorato la madre del bambino in una entità mostruosa (cosa che si capiva quasi da subito); ma gli autori non si spingono oltre nel dare un senso e una coerenza a una storia che probabilmente non sapevano nemmeno loro dove volesse andare a parare e come finire.
Finalmente è uscito anche in Italia il seguito del film Horror The Conjuring: all’epoca del primo film non curavo ancora il sito come oggi, ma chi mi conosce sa cosa penso di quel film, che reputo uno dei migliori horror dell’ultimo decennio. Peraltro, in generale, al regista James Wan attribuisco i migliori risultati horror e lo reputo un genio: basti ricordare che è dietro a Saw-L’enigmista, alla saga di Insidious (che con Conjuring ha molti punti di contatto) e di altre prove notevoli, fra cui appunto Conjuring 1 e 2.
Il sequel si presenta francamente all’altezza di quanto atteso e sperato: forse leggermente sottotono rispetto al primo film, con un finale frettoloso, tuttavia regala un prodotto ben orchestrato, convincente, con molte scene ben curate e d’effetto, capaci anche di spaventare quanto necessario.
La storia è ispirata a fatti veri (una buona descrizione del caso originale la trovate qua): fine anni 70, Inghilterra, in una casa dove vive una donna con 4 figli (due maschi e due femmine), la più giovane delle ragazzine inizia ad assere vittima e testimone di fenomeni paranormali inquietanti. Lievitazione, oggetti che si spostano, colpi… Un poltergeist? Una messinscena? Il fantasma del precedente proprietario?
Il film da questa storia trae una propria sintesi e interpretazione, inserendo anche una mefistofelica apparizione di un’entità blasfema in abito da suora… Visivamente la figura più dirompente del film, al punto che è già stato annunciato uno spin-off che avrà per “protagonista” questo personaggio (come già accaduto per la bambola Annabelle comparsa nel primo episodio di The Conjuring, poi protagonista di un prequel/spin-off e che rivedremo presto in un altro episodio in uscita nel 2017, verosimilmente da porsi a metà tra gli altri due film).
Il contenuto del film, per essere critici, riecheggia molti elementi tipici del genere (come già il primo Conjuring era debitore a L’esorcista, Poltergeist e La bambola assassina) e si può considerare un ennesimo prodotto fatto su misura con una ricetta nota del regista James Wan; nulla di particolarmente nuovo o stupefacente. Eppure, il film – anche forte di questo know-how – offre esattamente il tipo di intrattenimento che promette e deve offrire. La ricetta di Wan non sarà, almeno questa volta, un piatto nuovo, ma è di quelli si mangia sempre volentieri, magari con un bis.
Particolare l’inserimento di alcune scene romantiche o gioiose che, pur rendendo il tutto lievemente più stucchevole, di fatto non influiscono negativamente sul ritmo del film o sull’atmosfera, che nei momenti salienti resta alta e ben orchestrata.
Insomma, se avete amato il primo Conjuring non potete perdere questo nuovo episodio (e se non avete visto altri film tra quelli citati, in particolare Annabelle, gli Insidious o Saw, direi che avete un bel po’ di cinema da recuperare). Senza fretta nell’alzarvi dalle poltrone, perchè nei titoli di coda Wan offre registrazioni audio dal caso originale e un collage di foto di repertorio sempre delal storia vera dietro al film!
Premetto immediatamente che non sono mai stato un giocatore di Warcraft e la mia conoscenza del videogioco è pressoché inesistente, pertanto il mio parere si dirige direttamente alla trama e al film che, in definitiva, ho trovato piacevole e carino, ma non esaltante né una pietra miliare.
La storia tratta di un’orda di orchi che abita un mondo al collasso e che, pertanto, guidati dal loro potente stregone, cercano di conquistare un altro mondo, passando attraverso un portale dimensionale (concettualmente simile al noto Stargate). La magia dello stregone si basa su una energia detta Vil che, di fondo, è l’energia vitale intrinseca di ogni essere vivente. Proprio perché il mondo degli orchi è al collasso, lo stregone non ha abbastanza potere per far passare tutta l’orda e porta con sé un primo esercito, per razziare e conquistare il mondo dei 7 regni (Westeros?) ove catturare viva la popolazione per estrarre altro Vil. Da qui parte un intreccio, che non svelo, che porta il regno degli uomini a fronteggiare l’invasione degli orchi, con l’aiuto del Guardiano (il mago posto a presidio della pace) e di un giovane apprendista, il tutto nel pressochè totale menefreghismo di nani ed elfi che se ne sbattono bellamente.
Il grosso della storia è un collage di cliché che, tutto sommato, raggiunge il suo scopo: offrire una storia fantasy godibile e di totale intrattenimento, che può piacere come annoiare a seconda dello spettatore. Sicuramente non offre nulla di eccelso o particolarmente laborioso o geniale, nonostante il meccanismo in sé sia ben strutturato, pur con palesi forzature o scemenze. Proprio verso la fine del film ci sono una o due scene che indubbiamente spezzano la monotonia e prevedibilità della trama (seppur di poco) e offrono anche qualche dialogo particolarmente seducente, il tutto sostanzialmente predisponendo l’arco narrativo per uno o più seguiti, immaginabili fin dal sottotitolo “l’inizio” dato al film.
Sicuramente l’impostazione video-ludica è fondante: sia a livello grafico che scenico, il film si presenta come un enorme videogioco (o fumetto o cartone). I personaggi sono stereotipati all’inverosimile, la personalità appena abbozzata o approfondita quel tanto che serve a dare un minimo di credibilità alla trama in quei cinque minuti in cui non ci sono duelli o esplosioni. Alcuni dettagli sono indubbiamente privi di senso e l’intera struttura narrativa (almeno per un profano del gioco, ma temo per chiunque) si presenta non immediatamente comprensibile, perché alcuni aspetti – per quanto minuti e banali – sono buttati in mezzo un po’ allo sbaraglio, sostanzialmente richiedendo allo spettatore di accettarli senza contestazioni o attendere lo sviluppo della trama per cercare di attribuirgli il giusto senso e ruolo e significato.
Concludo con una triplice osservazione per i puristi del fantasy: