Arthur Machen – Il cerchio verde – Recensione
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Per i tipi di Providence Press è recentemente uscito l’ultimo romanzo inedito di Machen, uno dei padri del weird e del fantastico contemporaneo, amato da Lovecraft (che si è molto ispirato all’Autore Gallese), ma anche molto legato al tema del Piccolo Popolo: ho recentemente avuto il piacere di recensire altre opere di Machen (praticamente tutte le più note e importanti), rintracciabili al tag dell’Autore su questo sito.

Trama de Il cerchio verde, dal sito dell’editore: Lawrence Hillyer, uno studioso e ricercatore di cose “nascoste”, viene costretto a trascorrere un periodo di riposo a Porth, una località di villeggiatura sulla costa del Galles. Hillyer, persona solitaria e senza amici, troverà “qualcosa” in mezzo a una radura tra le dune (il cosiddetto Cerchio Verde), una presenza che lo seguirà al suo ritorno a Londra… Il Cerchio Verde, pur nella sua brevità come romanzo, è una lettura complessa. Perché Arthur Machen approfitta delle vicende del protagonista, e delle sue ricerche per comprendere il fenomeno che si sta manifestando, per compiere una serie di riflessioni sui propri interessi di appassionato di tematiche occulte; sull’intervento di un mondo etereo che si introduce nella nostra realtà; su un regno dove vive – chissà? – la Regina delle Fate che interferisce con le vicende umane; su qualcosa che è “oltre la soglia” ed entra nel nostro mondo… e non porterà nulla di buono. Questo libro non è per un lettore casuale. Chi apprezza Arthur Machen, troverà in questo volume le ultime riflessioni sul suo interesse al mondo del Piccolo Popolo, tematica che ha sempre permeato l’opera dello scrittore gallese. Che lo porterà a scoprire quello che sarà (tra manifestazioni inquietanti, poltergeist, omicidi misteriosi, possessioni) il destino di Lawrence Hillyer.

L’AUTORE

Il gallese Arthur Llewelyn Jones (1863-1947; Machen era il cognome della madre) è uno dei più grandi maestri della Letteratura fantastica mondiale. Sale alla ribalta alla fine del XIX secolo con i due capolavori Il Grande Dio Pan e I Tre Impostori, e successivamente con Il Terrore. L’influenza della sua opera, dominata dal sovrannaturale e dall’occulto, è stata grande, sia su H.P. Lovecraft che su Stephen King.

COMMENTO:

Il romanzo segue le vicende di Hyllier, in un parallelo con articoli di giornale e lettere di studiosi realmente esistiti, che creano un “cerchio”, come quello che dà nome alla verde radura del titolo, in cui il fantastico e il reale si intrecciano e susseguono senza soluzione di continuità. Accanto ad atmosfere tipiche di Machen, più vicine ad opere “leggere” come Un frammento di vita, rispetto ad opere più cupe come Il grande dio Pan, il lettore si trova ad assistere a una serie di inspiegabili circostanze ed eventi che sembrano celare l’intervento di forze esterne e che Machen pare riportare al tema del Piccolo Popolo e alla presenza di folletti, fate e altre entità accanto al nostro mondo.

Il tema è costante in Machen, così come la percezione di una realtà trascendente concessa a pochi, sognatori e alchimisti in senso metafisico (più che chimico), al punto che pochi sono capaci di cogliere la magia oltre la prosa della vita quotidiana.

Al contempo, ad ancora meno spettatori (forse sfortunati) è poi concesso di interagire con quelle forze che, nella visione dell’Autore, hanno sempre un lato ambiguo e spaventoso, malevolo e terrificante.

Il volume è un interessante resoconto anche di quello che potrebbe essere un primo e dettagliatissimo caso di poltergeist, di cui Machen – frequentatore di ambienti esoterici come la Golden Dawn – dimostra di conoscere i dettagli “scientifici” con precisione: cosa interessantissima, considerando che ciò rivela come già nelle prime decadi del 1900 gli elementi costantemente presenti in episodi di presunti Poltergeist risultino coerenti rispetto a quelli messi in luce ed elencati anche dalla più recente dottrina di parapsicologia [cfr. gli articoli di CSPBO, ad es. l’articolo di Aiazzi sul Poltergeist, oppure “Un possibile caso di poltergeist in Lombardia” di Bruno Severi, Giorgio Cozzi, Stefano Severi e Giuseppe Perfetto, resoconto dell’indagine eseguita di recente in collaborazione tra esponenti del Centro Studi Parapsicologici (Bologna) e dell’Associazione Italiana Scientifica di Metapsichica (Milano) sul n. 2/2011 dei Quaderni di Parapsicologia, del Centro Studi Parapsicologici di Bologna.]

Casistiche in cui Machen, in realtà, con stupore del lettore, dimostra di non credere realmente, pur ricollegando tutto il tema al regno delle Fate, come meglio chiarito nel saggio – contenuto sempre nel volume Providence Press – «In Occlusum Regina Palatium»: il cerchio indicibile di Arthur Machen di Giacomo Ortolani; una postfazione che, per complessità, ricchezza di approfondimento e spessore delle riflessioni, rappresenta un vero e proprio saggio degno della migliore ricerca specialistica in materia.

Il romanzo, in definitiva, con una struttura più solida e convincente di altre opere, offre una piacevole lettura di distrazione che – senza picchi di orrore cosmico – porta comunque sul ciglio del regno delle fate e a indigare sui grandi misteri del paranormale: una lettura necessaria e dovuta per i fan dell’Autore, che troveranno il testamento letterario di Machen in questa ultima opera scritta prima di morire, ma al contempo un interessante spunto di riflessione per chiunque ami la materia del paranormale, a prescindere dall’apprezzamento per la narrativa di genere.

Il volume è di prossima pubblicazione anche in una tiratura LIMITATA E NUMERATA DI 59 COPIE (256 pagine al Prezzo di copertina: 39,00 euro) che conterrà, oltre al romanzo e al saggio di Ortolani citato, alcuni contenuti EXTRA esclusivi dell’edizione Deluxe, cioé i tre racconti inediti di Arthur Machen:
7B Coney Court
dove strane lettere vengono spedite da una casa in cui, teoricamente, non abita nessuno
La luce che non potrà mai essere spenta
dove strani accadimenti colpiscono la città natale di Shakespeare
La strada per Dover
dove una misteriosa sparizione si verifica durante una veglia in una casa infestata.

Per info sulla versione Deluxe (QUI maggiori informazioni)

Caratteristiche del volume in edizione regular: brossurato 14,8×21; 192 pagine; euro 17,90.

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Arthur Machen – La collina dei sogni – Recensione
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Trama (dal sito Il Palindromo):

Il giovane e introverso Lucian Taylor, emblema del letterato decadente e maledetto, cerca di evadere, attraverso la scrittura, dalla realtà stantia e borghese di un paesino del Galles del XIX secolo.

Gradualmente la dimensione onirica prenderà il sopravvento e il giovane si ritroverà a vivere un’esistenza dissociata, a metà tra un passato mitico, puro e selvaggio e un presente crudele e disumano. L’approdo in una fredda e caotica Londra estrometterà, infine, ogni spiraglio del reale dalle giornate solitarie di Lucian.

Ripubblicato a trent’anni dalla prima edizione italiana, con un’introduzione inedita dello stesso Machen, La collina dei sogni (1907) è un classico della letteratura inglese. Questa è la prima edizione integrale in italiano dell’opera.

Arthur Machen (1863-1947), tra i maggiori letterati inglesi di fine Ottocento, ha condotto il genere fantastico a picchi letterari altissimi.
Considerato un maestro da H.P. Lovecraft e ammirato da Stephen King, tra le sue opere principali ricordiamo Il grande dio Pan (1894) e I tre impostori (1895).
Commento.

Il Palindromo sta recuperando dei testi di grande spessore per la narrativa fantastica nella collana de I tre sedili deserti (che personalmente mi ricordano la triade degli Asi), come Il vascello di Ishtar (di Abraham Merrit già recensito): si tratta di testi complessi, leggibili su più livelli e spesso con spunti esoterici di lettura.

Questa edizione riprende la traduzione (e postfazione) di Claudio De Nardi, ma arricchisce il testo con una prefazione del sempre ineccepibile De Turris e la introduzione originale di Machen all’edizione americana, oltre ad alcune ottime immagini d’epoca (tra cui una illustrazioni di Sime, tanto caro a Lovecraft).

Come anticipato, il testo offre vari livelli di lettura e sicuramente offre un Machen molto diverso dall’autore horror noto e amato.

Un primo livello è quello narrativo: la storia ci offre la breve parentesi di vita del giovane Lucian Taylor, partendo dall’infanzia (quasi un tempo-luogo del sogno e dell’innocenza perduta) nel piccolo paesino di Caermaen, dal peregrinare nei boschi – dove i resti di un antico sito romano aprono la fantasia verso paesaggi onirici e mitici – al fascino del primo amore, forse salvifico e perso per sempre con l’innocenza. Il giovane Taylor scrive un libro e presto viene truffato e plagiato da un editore: altro cunicolo della vita che conduce a un percorso fatale. Lucian si trasferisce in città, a Londra, entrando in contatto con un mondo molto più crudo e duro, perdendosi nel delirio della propria ricerca di un “nuovo capolavoro” che, questa volta, non gli sia rubato. Una durezza, quella cittadina, che c’era anche nel piccolo paese di Caermaen – come attesta un’agghiacciante scena di violenza da parte di alcuni bulli su un cagnolino – che però a Londra sembra quasi esplodere all’eccesso. Lucian si isola nel proprio mondo, fatto di droga, fino a dimenticarsi di un padre che muore senza quasi avere il piacere di salutarlo o rivederlo e, ancora oltre, fino a perdere lui stesso la vita, in quella che è probabilmente la prima morte bohemian per overdose della storia. In questo Machen è precursore, ma di un genere molto diverso da quello che ci aspettiamo, molto più greve e angosciante.

Un secondo livello di lettura è quello visionario: nei sogni della collina (del titolo) e delle antiche rovine, Machen tratteggia il mondo fatato e celtico che tanto gli è caro e caratteristico, mentre nei deliri della droga le visioni si fanno più cupe e grottesche, fino a punte di horror o visioni infernali alla De Quincey, con Sabba di streghe e demoni, quasi in un’eco delle teorie occultiste di Crowley (e della Golden Dawn) e preludio alla dannazione spirituale di chi ha sprecato la sua vita.

Un terzo livello di lettura è quello erotico: dal sentimento purificante e salvifico dell’adolescenza (che quasi avrebbe potuto riscattare e deviare un’intera vita persa), alle perversioni del femminino più conturbante e bruciante (sacro o profano, in un’ambivalenza inscindibile).

Un quarto livello è quello letterario, in cui Machen – attraverso gli esperimenti e gli esercizi narrativi di Lucian – si proietta in un’articolato esame di Autori, Scrittori, stili e modelli, quasi a voler dimostrare di conoscere e saper imitare o persino superare anche i più complessi maestri che lo hanno preceduto, in una sorta di riscatto autoriale personale: schiacciando persino il suo personaggio, sotto il maglio della sua bravura.

Il quinto (e forse ultimo) livello è quello esoterico: in cui la vita stessa diventa un modello alchemico, una grande opera capace di portare alla realizzazione e alla propria elevazione, come il raggiungimento del Sacro Graal per un cavaliere di Avalon (parallelismo a tutta la trama, che sembra quasi perdersi nella mitica isola), laddove il Graal è Spirito, prima che materia. Il vagabondare si trasforma, anche in questa storia (come in molte opere di Machen), in un errare nel (metodo) percorso della vita (ascesi). Un mondo superiore e felice, perfetto e quasi divino, è oltre un labile velo, che sognatori e poeti, quasi dei dervisci moderni, sanno scorgere attraverso le pieghe del reale e (persino) dello squallido.

collana: I tre sedili deserti, 1

note: traduzione di Claudio De Nardi, prefazione di Gianfranco de Turris

aprile 2017, pp. 288

15x19cm, bross.

prezzo 18€

ISBN: 978-88-98447-31-2

Arthur Machen – Un frammento di vita & Il popolo bianco – Recensione
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Edizioni Hypnos ha pubblicato nella collana “Biblioteca dell’Immaginario” (da sempre fra le più ricche di offerte di qualità tra gli autori maestri dello horror) un volume contenente alcune opere di Arthur Machen, fra i maestri del genere weird/horror.

Il volume, nello specifico, contiene Un frammento di vita, Il popolo bianco e Un doppio ritorno (oltre a una bibliografia di Machen).

Dal sito dell’editore (Edizioni Hypnos):

Nelle esplorazioni di Edward Darnell, figlie dei vagabondaggi dell’autore, Londra diventa terra incognita, ricca di incanti, promesse e minacce. Lasciandosi alle spalle la grigia esistenza di impiegato della City, la grettezza della vita quotidiana nei sobborghi, il protagonista parte alla scoperta della vera realtà oltre il mondo materiale, ritrovando i verdi viottoli del Galles nella metropoli, scoprendo il significato autentico dell’eredità nascosta dei suoi padri. La realtà oltre le apparenze, l’esplorazione di mondi sconosciuti ma sempre a portata di mano, i tesori che offrono e i pericoli a cui si espone chi decide di intraprendere il viaggio sono i temi portanti della narrativa di Machen, carica di influenze mistiche e suggestioni legate alla tradizione celtica: Un frammento di vita, pubblicato qui per la prima volta in Italia, e Il popolo bianco, considerato uno dei suoi grandi capolavori, ne sono tra le più importanti testimonianze.

ARTHUR MACHEN (1863-1947), gallese di nascita, è considerato tra i maggiori autori del fantastico, alla pari di Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft. Tra le sue opere più importanti i racconti Il grande dio Pan (1894), definito da Stephen King “forse la miglior storia horror scritta in lingua inglese”, e Il popolo bianco (1904), veri e propri classici della letteratura weird e horror, il romanzo La collina dei sogni(1907) e il ciclo di storie de I tre impostori, definito da Elémire Zolla “un capolavoro circolare”. Arthur Machen fu anche membro della Golden Dawn, a testimonianza della sua continua e instancabile ricerca spirituale.

Il commento.

Voglio analizzare i tre testi singolarmente.

Un frammento di vita in questa pregevole edizione è presente sia nella versione definitiva più nota, ma anche – in appendice A – nella prima versione dello Horlick’s Magazine, di cui è recuperata la prima versione del capitolo IV (quello conclusivo e più importante della storia). Come suggerisce il titolo, questo primo romanzo breve costituisce esattamente “un frammento di vita” matrimoniale, nell’Inghilterra di fine 800, fra i due protagonisti della storia. Per 3/4 buoni della storia, la trama è costituita proprio da scenari domestici, dal menage e dall’economia di una giovane coppia senza troppi soldi, in un paesaggio nostalgico e ammaliante, che fa rimpiangere l’apparente semplicità dei tempi andati. La storia, improvvisamente, sterza però in una nuova dinamica, laddove lo scenario si rivela il pretesto da cui sortire uno straniamento totale del lettore, verso un mondo e un tempo ancora più lontani e alieni, grazie anche a un ricordo dell’infanzia del protagonista che è epifania dell’invisibile e del grottesco, additando a un altro mondo, oltre il velo del nostro… Quel mondo pagano e celtico, ma anche mostruoso e alieno, tanto caro a Machen. Anche il vagabondare del protagonista per Londra rivela quell’ozioso perdersi nello spazio, quasi un percorso alchemico di purificazione e ritorno alle origini, leit motiv dell’Autore. Più pratico e tragico il finale alternativo della prima versione, che in parte perde parte di quella magnificenza e immaginazione che caratterizza la versione definitiva, sebbene sappia maggiormente convincere e dare compiutezza alla storia. Francamente, penso che il finale perfetto sarebbe proprio sorto da una fusione tra le due strutture della trama, mai elaborata da Machen, per quanto noto.

Il popolo bianco è una sorta di lungo monologo o diario, incorniciato dal dialogo tra alcuni personaggi. Personalmente, per quanto questa cornice sia interessante e nel paradosso sappia enucleare un concetto molto interessante (cioè l’effimero ribaltamento degli opposti), ho trovato poco utile questa sezione della storia, che pare più un espediente per offrire il vero nucleo della storia (sebbene il ragionamento di fondo serva proprio a creare la giusta atmosfera, come un sottofondo). In questo diario di una bambina, dal ritmo infantile e un po’ psichico (alla Joyce), si adombra nuovamente l’esistenza di antichi riti e di un altro popolo, fatato (o ancora alieno, con tratti molto affini alla moderna teoria UFO) e sicuramente pagano, che potrebbe essere accanto al nostro, mostruoso e aberrante o – nel ribaltamento degli opposti così “uguali” – persino salvifico e materno. Un testo in pieno stile Machen.

Infine, Un doppio ritorno è un simpatico racconto che, giocando sull’ambiguità o sul’equivoco, sembra quasi adombrare un orrore quasi gotico, in una tragedia”nevrotica” di grande divertissement.

Un frammento di vita – Il popolo bianco, 236 pagg. € 21,90

 9788896952665

Arthur Machen – Il grande dio Pan – Recensione
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LA TRAMA (dal sito dell’editore Adiaphora)

Finalmente, dopo anni di ricerche nel campo delle scienze occulte e dello studio delle funzioni cerebrali, il dottor Raymond è pronto per portare a termine un folle esperimento. Una notte d’estate, assieme all’amico Clarke, che sarà suo testimone, decide di sottoporre la giovane Mary a un intervento chirurgico al cervello per consentirle di sollevare il velo che cela la mostruosa divinità della natura, il Grande Dio Pan. Ciò che la ragazza vede la sconvolgerà per sempre.
Molti anni dopo, in una Londra vittoriana ancora profondamente scossa dagli omicidi di Whitechapel, una catena di inspiegabili suicidi sconvolge le famiglie benestanti del West End, stringendo la città in una morsa di terrore nella quale nessuno può dire chi sarà il prossimo, né quando accadrà.
Soltanto Villiers, appassionato esploratore notturno, il gentiluomo Austin e lo stesso Clarke, segretamente affascinato dall’occulto e dal mistero, sospettano che dietro ai suicidi possa nascondersi un’enigmatica figura femminile. Tra angoscianti testimonianze e onirici peregrinaggi dai sobborghi più ricchi fino ai bassifondi più squallidi di Londra, i tre insoliti investigatori si troveranno dinanzi a un terribile segreto che getta le radici tra le pieghe del tempo, in un passato colmo di suggestione e oscurità.
Il Grande Dio Pan, all’epoca additato come osceno per i contenuti sessuali e lo stile decadente, viene oggi considerato uno dei migliori romanzi gotici dell’orrore di fine Ottocento.

La nuova edizione in Italia di uno dei classici della letteratura gotica, per la prima volta in edizione speciale con testo originale a fronte e una nuova traduzione accompagnata da note critiche e da una postfazione di H.P. Lovecraft.

IL COMMENTO

Il grande Dio Pan è indubbiamente un’opera di grande interesse e valore, almeno limitatamente a quella che si può considerare narrativa di genere (fantastico).

Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1894, cioè sette anni prima del Dracula di Stoker. Se quest’ultimo apre e segna definitivamente l’evoluzione della letteratura fantastica verso le sfumature di un genere horror meno gotico (nel senso classico e pedante del termine) e più visionario e ancestrale, nonché “violento”, è però vero che molte delle cupe e fumose atmosfere della Londra di fine ottocento, ammantata di soprannaturale, sono già presenti nel “Dio Pan”, come già erano apparse e stavano apparendo in altre grandi opere di importanti autori (in primis Stevenson) nonché in una realtà segnata, già a cavallo del 1888, dagli assassini di Jack the ripper e poi da occultisti del calibro di Aleister Crowley (non a caso Machen, dopo la morte della moglie, si era affiliato alla Golden Dawn del celebre occultista).

Il terreno era fertile per la nascita e lo sviluppo di opere narrative cupe e in ciò il “Dio Pan” riesce benissimo: poca azione, ma tanta atmosfera surreale e misteriosa, conturbata dall’aleggiante ed inquietante presenza, costante, di un dio ancestrale e alieno.

Infatti, il “Dio Pan” strizza l’occhio anche alla fantascienza che, sempre in quegli anni, cominciava a evolvere dal proprio embrione: perché Pan non è soltanto un demone incarnato, capace di camminare su questo mondo; è anche una presenza malvagia e perversa che esiste altrove, nell’universo e negli spazi cosmici esterni, capace di violentare il pensiero e l’animo, prima del corpo. È l’abitatore di una realtà da sempre esistente, eppure visibile solo a pochi eletti o sfortunati.

Inutile precisare perché, se queste sono le premesse, il “Dio Pan” (altresì il celtico Nodens) sia stata un’opera capace di impressionare H.P. Lovecraft al punto da essere citata, insieme al suo autore, nelle opere del solitario di Providence. Il “Dio Pan”, infatti, presenta già, in nucleo, molte delle atmosfere e delle idee che caratterizzeranno la successiva opera di Lovecraft, con i suoi orrori antichi e cosmici; è quindi un’opera affascinante e che varrebbe la pena di essere letta, forse, anche solo per questi brevi caratteri.

Questa nuova, affascinante e curata edizione italiana, offre anche la possibilità – in un solo acquisto – di avere il testo a fronte originale di Machen.

 14,00

TITOLO Il Grande Dio Pan
ISBN
 978 88 99593 10 0
USCITA 01/04/2018
GENERE Horror
PAGINE 190

Abraham Merrit – Il vascello di Ishtar – Recensione
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Finalmente ripubblicato, dopo molti anni di assenza dagli scaffali delle librerie italiane, il romanzo “Il vascello di Ishtar”, di Abraham Merrit, per l’editore Il Palindromo, nella meritevole collana I tre sedili deserti: note e traduzione di Giuseppe Aguanno, introduzione di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, con un saggio di Andrea Scarabelli e illustrazioni di Virgil Finlay.
Specifiche: gennaio 2018, pagg. 472, 15x19cm, bross. b/n, prezzo 26€ – ISBN: 978-88-98447-32-9

La trama, dal sito dell’editore: «John Kenton, appena tornato a New York dall’esperienza devastante della Prima guerra mondiale, riceve uno strano oggetto rinvenuto durante una campagna di scavi in Medio Oriente: un blocco di pietra al cui interno è custodito un piccolo vascello di gemme intagliate. Kenton non lo sa ancora, ma il manufatto è uno stargate, la soglia per un’altra dimensione, un mondo dove il suo coraggio dovrà scontrarsi con l’acciaio delle spade e la potenza di ancestrali divinità in lotta, e in cui ritroverà la voglia di vivere sperimentando la passione di un amore fuori dal tempo. Questo volume contiene la prima versione de Il vascello di Ishtar, pubblicata originariamente nel 1924 e inedita in Italia. Il romanzo è accompagnato dalle illustrazioni originali dell’epoca e da un ricco corredo di apparati critici. Abraham Merritt (1884-1943), maestro del fantastico e noto giornalista, è tra i pionieri e più apprezzati autori di letteratura fantasy. Stimato da H.P. Lovecraft e Clark Ashton Smith, tra le sue opere si ricordano: Il pozzo della luna (1919) e Gli abitatori del miraggio (1932).»

La storia fu originariamente serializzata sulla rivista americana Argosy All-stories, tra il novembre e il dicembre del 1924, in 6 episodi ed ebbe un grandissimo successo, al punto da essere votata come una delle storie più apprezzate dal pubblico ed essere eletta dai lettori nel 1938 come migliore storia della rivista, scalzando il ciclo di Tarzan di Burroughs (come peraltro ben chiarito nell’ottima nota biografica su Merrit in appendice al presente volume e opera della brava Maria Ceraso). Merrit fu un autore molto noto e apprezzato della sua epoca (addirittura una rivista fu battezzata in suo onore: A.Merrit’s fantasy magazine) e seppe ispirare molti grandi Autori (persino il ciclo di Cthulhu di Lovecraft potrebbe avere ricevuto suggestioni da The Moon Pool del 1918 di Merritt).

Ho voluto così introdurre l’Autore, perché ritengo che questo volume sia un tassello fondamentale di un percorso di narrativa fantastica in cui il carisma del suo creatore sicuramente ha influito positivamente. Sarebbe difficile e forse superiore alle mie competenze risalire alla prima opera fantastica in cui via sia un passaggio  tra i mondi, elemento già presente in Virgilio o Dante se circoscritto ai regni ctoni infernali, ma tema sicuramente di grande moda all’inizio del 1900: Il vascello di Ishtar mi ha ricordato alcune atmosfere de “La terra dell’eterna notte” di Hodgson e, per tornare a Burroughs, ha alcune assonanze con il ciclo di Carter di Marte o, persino, per impostazione della trama e intreccio dei personaggi e delle scene, con i fumetti di Flash Gordon.

Kenton, protagonista di questo romanzo, tramite il simulacro del vascello riesce di fatto a trasferirsi in un’altra epoca, quasi un altro mondo, dove persino lo scorrere del tempo è differente: qui recupera un ruolo eroico che nel nostro mondo non aveva. Inizialmente la scena è collocata sul vascello, diviso e separato tra il Prete Nero, Klaneth, tramite e celebrante del Dio della Morte Nergal, rappresentante delle tenebre, e le adoratrici di Ishatar (dea dell’Amore), tra cui la splendida sacerdotessa e tramite Sharane, di cui il protagonista si innamorerà. Kenton, passerà da schiavo a capo di una rivolta che prenderà il controllo della nave, con il passaggio di alcuni personaggi (Jiji e Zubran), inizialmente nemici, tra le file dei buoni, oltre all’amicizia con un altro schiavo (il vichingo Sigurd), tutti grandi comprimari della storia.

La religione e la mitologia sono elementi vivi e vivificanti del romanzo, che spazia dai miti mesopotamici a quelli nordici, creando un interessante intreccio, in cui il ruolo degli dei si affianca a quello dei personaggi, un po’ come nell’epica Omerica o, venendo ad Autori più recenti, nei cicli di Elric e Corum di Moorcock.

Dovremo aspettare gli anni ’70 per recuperare mondi divisi tra più piani (e divinità), come appunto in Moorcock o Zelazny fino al più recente Stephen King della torre nera, ma trovo che raramente – nemmeno tra alcune pagine di quest’ultimo ciclo del maestro dello horror contemporaneo, a tratti veramente immaginifiche – troveremo una più efficace e compiuta descrizione dei mondi paralleli come quella presente in questo romanzo e che vale la pena citare: «Di fronte aveva una vasta nebbia: vapori globulari argen­tei discendevano su di lui; il ventre curvo di un altro mondo. Quel mondo si stava scontrando col suo? No! Vi si stava sovrapponendo! La consapevolezza giunse subitanea e fugace: in quella minima frazione di tempo gli si manifestò come un’illuminan­te intuizione, sola chiave verso l’inesplicabile. Grazie ai lumi di questa rivelazione, Kenton vide la pro­pria Terra non per quello che sembra, ma per ciò che è: una vibrazione eterica negli intervalli tra le pulsazioni elettroniche di mondi su mondi che si intersecano, mondi originati dalla forza primigenia di cui queste vibrazioni sono espressione, nelle forme a noi note e in quelle che ignoriamo. Si figurò questi mondi e il proprio come un ammasso di elettroni: in verità ognuno di essi era piuttosto lontano dai propri simili, così come i pianeti, ben distanti l’uno dall’altro e dal sole. Attraverso gli abissi dello spazio, tra queste particelle, vide miriadi di congerie affini suddivise in globi nascosti e invisibili: ciascuno orbitava roteando senza inter­ferire con gli altri, eppure questi si incontravano, si compe­netravano, intrecciandosi. Mondi che si incrociavano secondo frequenze differenti, più alte o più basse, nella totale inconsapevolezza di queste tangenze. Mondi che si muovevano attorno e attraverso di noi, che si trovavano a coincidere in modo casuale, come segnali radio intercettati da un apparecchio non sintonizzato. Mondi sovrapposti come flussi di informazioni che, senza interferire l’uno con l’altro, scorrevano insieme sullo stesso cavo, grazie alla diversità delle vibrazioni. Il vascello di Ishtar navigava su uno di questi mondi paralleli. Il gioiello di gemme non era l’imbarcazione stessa, bensì una chiave capace di aprire un passaggio dalla dimensione d­i Kenton verso quella del vascello: un dispositivo che adattava le vibrazioni materiche del suo corpo a quelle del mondo della nave

Dopo la parte di trama sul vascello, e prima della conclusione – affatto scontata – della storia nella medesima sede, ecco che un’altra parte del romanzo si sposta sull’Isola di Emakhtila, dove accanto a nuovi personaggi, abbiamo alcune delle parti più evocative dell’opera, con toni aulici tali da ricordare quasi antichi poemi o testi sacri: come accennavo, il ruolo della mitologia è fondamentale in quest’opera, senza diventare pesante. Se ne ricava la profonda, davvero magistrale conoscenza di Merrit per la materia, che l’Autore tratta con completezza, rendendo appunto mito e divinità essenziali alla storia e alla trama stessa, in un modo che forse segna davvero il passaggio epocale del fantasy, per cui mi spingo a definire questo volume un tassello fondamentale del genere. Dopo Merrit, ci vorrà molto tempo prima che gli dei tornino a essere talmente rilevanti nell’immaginario, o perché partoriti direttamente da un mitopoieta dello spessore di Tolkien, oppure perché giovani autori, a partire da Zelazny appunto fino a un Gaiman odierno, sappiano recuperare il fascino che un intreccio tra vera mitologia antica e fantastico contemporaneo possano portare: ciò che oggi ha dato vita al genere urban fantasy, in nucleo già anticipato anche dal capolavoro Malpertuis di Jean Ray.

La storia è ben realizzata, alternando scene più poetiche e visionarie a numerosi duelli e battaglie, persino navali, caratterizzate da grande ingenio e descrizioni a tratti quasi macabre e gore.

Non posso che consigliarne la lettura agli amanti del fantasy e dell’epica, con il lieve avvertimento di prepararsi a un testo dallo stile ovviamente di inizio ‘900, che però non dovrebbe appunto stonare ai veri lettori del genere, che appunto avranno sicuramente dimestichezza con i capisaldi, tutti circa di questo periodo.

Una nota finale sull’edizione: di grande qualità, raccoglie le splendide illustrazioni di Finlay (vero maestro dei pulp anni ’30), e fornisce anche i vari apparati critici già menzionati. Ottimo il glossario dei termini mitologici, utile a una migliore comprensione del testo, e liminale l’introduzione di spessore di due Maestri come De Turris e Fusco. Ma soprattutto voglio plaudere all’ennesimo contributo di Andrea Scarabelli che, nonostante la giovane età, oggi si presenta sul panorama letterario italiano come forse il solo e più sapiente dei saggisti ESOTERICI, nel senso più aulico e accademico del termine. Nel suo mysterium coniunctionis riesce a recuperare il valore magico delle parole, per passare a trattare di narrativa fantastica fino a spingersi a spiegare (con citazioni di Autori di ambito filosofico e antropologico, assai più sapienziale del “banale” genere fantastico) temi come l’eterotopia, la ierogamia e la teogamia, facendoci riflettere sul vero significato del fantasy che, non a caso, viene chiamato in altri Paesi come Speculative fiction. Perché cos’è il fantastico se non il modo moderno di rappresentare miti Platonici, idee e archetipi, antichi come il tempo e l’inconscio umano?

E.G. Swain – Gli spettri della chiesa di Stoneground – Recensione
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Ho già avuto il piacere di parlare della Providence Press (con cui ho avuto il piacere di collaborare per il già esaurito primo numero della rivista Providence Tales) in varie occasioni: sia parlando del volume dedicato a Harrison, il detective di R.E. Howard, sia per l’antologia del sorprendente William Chambers Morrow, Il creatore di Mostri, ed ecco che nella stessa collana Silver Key arriva un terzo volume; la sola antologia rimasta di E.G. Swain – per suo espresso volere di oblio su altre opere – appartenente al filone delle storie di fantasmi inglesi.

Swain, infatti, amico di M.R. James (a cui dedica l’antologia), ha raccolto in questo volume l’eredità dell’amico, realizzando 9 storie di fantasmi davvero sorprendenti e originali: se James è fra gli indiscussi Maestri del genere – ricordato anche da Lovecraft – ecco che Swain non ha molto da invidiargli, sapendoci offrire delle storie dalle atmosfere davvero credibili e inquietanti.

Dal sito dell’editore: Roland Batchel è il vicario dello sperduto villaggio di Stoneground. È un amabile gentiluomo, appassionato di libri e antiquariato. Ma Stoneground è infestata da misteriose apparizioni sovrannaturali e toccherà al mite reverendo indagare sulla natura di questi fenomeni. Venite anche voi a Stoneground, per un viaggio nel passato con la grande tradizione inglese delle storie di fantasmi.

Il volume contiene il saggio introduttivo C’era una volta un vicario che abitava a Stoneground: la ghost story secondo il reverendo E.G. Swain di Giacomo Ortolani, come sempre ottimo, e nove racconti: L’uomo con il rullo; Ossa alle ossa; La famiglia Richpin; La finestra a oriente; Lubrietta; Il giardino di rocce; Il paralume indiano; Il luogo sicuro; Lo spettro della chiesa.

Caratteristiche del volume: brossurato 14,8×21; 160 pagine; euro 14,90.

Ottima la grafica e la fattura, come sempre per questo editore.

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Ho letteralmente divorato questo volume, che trovo spettacolare, perché ho apprezzato sia lo stile, molto piacevole, sia la descrizione delle scene, con atmosfere davvero inquietanti, ma anche la coerenza e credibilità con cui è trattato il tema degli spettri e revenants (o apparizioni extracorporee), nonché il modo in cui il Vicario li sa affrontare. Altre parti dei racconti, invece, hanno una vena ironica davvero coinvolgente e divertente, al punto da saper stemperare i racconti con risate e leggiadria (memorabile il personaggio di Wardle).

Batchel non è un vero detective del sovrannaturale e questi racconti raramente si abbandonano a banale gore: si tratta invece di racconti in cui l’atmosfera è fondamentale e in cui l’elemento del sovrannaturale giunge a sovvertire le regole della normalità, a volte in senso negativo, a volte persino positivamente, con la posizione del Vicario – appassionato d’antiquariato di grande pacatezza – che si trova a saperne comprendere e gestire le intime regole.

In generale, anzi, non manca quasi un alone di Provvidenza divina nella posizione del Vicario e/o delle entità con cui egli si trova a confrontarsi, in un senso escatologico non molto frequente, anzi quasi assente, in molte altre opere del genere, con una importante eccezione: molte atmosfere di questi racconti, più di altri, infatti, mi hanno ricordato certe storie del Carnacki di Hodgson, al punto da interrogarmi sui possibili contatti tra questi due Autori, almeno a livello di reciproca lettura…

Francamente poche volte, in vita mia, mi sono trovato a leggere un testo senza sapere cosa attendermi e ritrovarmi così soddisfatto dalla scoperta: davvero un recupero di un Autore, quasi assente in Italiano, che merita un encomio e che porrei a fianco a proposte come quelle di L.A. Lewis o L.E. White.

Servirebbe maggiore riscoperta di simili testi in Italia e sono certo che Providence Tales saprà proseguire in questo senso, come lasciano presagire le anticipazioni per il 2018 che riporto di seguito.

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In conclusione non posso che suggerire a tutti di acquistare e leggere questo libro, adattissimo a questo periodo dell’anno: accomodatevi sul divano, davanti a un bel camino acceso e immergetevi nelle atmosfere di Stoneground, ispirata alla reale Stanground di cui Swain fu realmente Vicario, come il suo fantastico personaggio.

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Foto della chiesa © Copyright Dave Hitchborne

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Nasce Italian Sword&Sorcery Books
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Di seguito il comunicato stampa ufficiale:

Siamo felici di comunicarvi la nascita di Italian Sword&Sorcery Books, editore indipendente il cui obiettivo è diffondere la fantasia eroica in Italia.

Noi crediamo fortemente che lo sword and sorcery non sia morto e che meriti maggiore attenzione da parte dei lettori, atteso che una fetta preponderante di essi non conosce nemmeno le principali opere, i più importanti autori e gli elementi distintivi del predetto genere di speculative fiction.

La rivalutazione della spada e stregoneria non può avvenire solo attraverso alcune sporadiche pubblicazioni, poiché qualche libro non ha la forza di modificare i gusti del grande pubblico e nemmeno di andare a toccare la sensibilità dei palati più raffinati.

Riteniamo necessaria una forte presa di posizione e pertanto abbiamo costituito l’Associazione Culturale Italian Sword&Sorcery a cui hanno già aderito molteplici scrittori, critici, giornalisti, intellettuali, illustratori e comunque appassionati.

Pensiamo che sia di capitale importanza muoversi su due differenti fronti: quello della narrativa e quello della saggistica.

Per quanto concerne il primo, abbiamo scelto di adottare il formato del racconto breve (ormai scomparso dalle pubblicazioni odierne), atteso che vogliamo riportare in auge lo stile di azione, avventura, orrore e fantasia tipico delle riviste pulp degli anni ’30 del secolo scorso e ispirarci ai grandi autori che le hanno rese popolari in tutte il mondo come Robert E. Howard, Clark Ashton Smith, H.P. Lovecraft, C.L. Moore, Henry Kuttner, Fritz Leiber e John Jakes.

In ordine al secondo, occorre fornire al lettore saggi e articoli, ma anche occasioni per confrontarsi in eventi e conferenze che abbiano ad oggetto lo studio del genere, al fine di comprenderne l’entità e l’origine.

Per informazioni: francescolamanno@hotmail.it

Sito: https://hyperborea.live/

Pagina Facebook: https://www.facebook.com/italianswordandsorcery/

William Chambers Morrow – Il Creatore di Mostri – Recensione
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Providence press è una nuova e agguerrita casa editrice, che sta cercando di recuperare alcune delle perle introvabili della narrativa pulp e weird di fine ‘800.

In questa riscoperta, dopo Harrison, il detective di R.E. Howard, nella stessa collana ecco arrivare William Chambers Morrow, uno dei precursori di Bierce e Lovecraft, come sapientemente illustrato nell’ottima introduzione del sempre minuzioso Giacomo Ortolani, che apre un nuovo tassello nell’albero genealogico del weird.

Il volume (che omaggia il primo e ritengo migliore dei racconti) si intitola Il creatore di mostri e altre storie dell’orrore, anche se in questo è forse fuorviante: i racconti di Morrow spaziano tra i generi e sono weird nel senso più ampio del termine, perché sono sorprendenti e bizzarri, difficili in realtà da circoscrivere a un genere preciso.

Del resto Morrow scrive in tempi ampiamente precedenti la narrativa di genere contemporanea, senza poter prevedere gli stilemi che sarebbero seguiti a lui e ai suoi successori: così ecco che accanto a racconti dalle forti sfumature horror, ce ne sono altri molto diversi, dove lo straniamento volge al thriller o alla proto-fantascienza, in una purezza di stile che ricorda appunto “liberi” autori come Bierce o Chambers, in bilico sul gotico, ormai lasciato alle spalle, e orientati verso un nuovo modo di stupire il lettore.
Un caso editoriale quindi, che per stranezza mi ricorda autori come Grabinski o persino Ligotti, quello più surreale di Teatro Grottesco.

Il volume, come accennato, contiene il saggio introduttivo W.C. Morrow, uno scrittore “famosamente oscuro” di Giacomo Ortolani e dieci racconti: Il creatore di mostri è il racconto più strabiliante di tutti, con sfumature di horror e quasi proto-fantascientifiche di altissimo spessore; Il nemico invincibile è un racconto dalla forte pressione psicologica, che mi ha ricordato lo stile di Poe.

Lo stiletto permanente è un racconto di grande impatto, curioso nello sviluppo e nel finale, così come lo sono i successivi La porta sbagliata e L’automa maledetto, mentre Lo scassinatore posseduto è un altro brillante risultato di weird su un tema che ritroveremo in storie più recenti e che tuttora ricorre nelle storie horror, sia scritte che su pellicola (non voglio spoilerare nulla, ma… quando capirete cosa intendo, mi stringerete la mano!).

La resurrezione della piccola Wang Tai è un racconto divertente e più poetico degli altri, mentre Un barlume di insolito e L’amuleto fedele sono nuovamente di un surreale molto bizzarro e diciamo pure di grande divertissement e ironia; mentre ancora L’ombra tenebrosa rappresenta un archetipo suggestivo, dal finale sorprendente, che nuovamente gioca su temi che la letteratura posteriore saprà riproporre e ristrutturare in molte sfaccettature.

Insomma, indubbiamente non è il classico volume di storie horror, ma rappresenta un elemento di storia della narrativa weird e grottesca di grande curiosità: un tassello prezioso nella riscoperta della storia letteraria del genere, almeno in Italia dove di questo autore erano stati pubblicati due soli racconti.

Caratteristiche del volume:

  • brossurato 14,8×21
  • 168 pagine

  • euro 14,90
It – 1a parte – Recensione
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Dopo lunga attesa, ecco finalmente il film di It, prima parte di una versione in due capitoli che, per la prima volta al cinema (la miniserie degli anni ’90, che resta un cult non scalzato da questa moderna, era apparsa in TV e home-video), si offre di mostrare in pellicola le vicende dell’omonimo romanzo di S. King.

Il film ha un cast giovanissimo, in cui tutti sono molto bravi: unica critica è il personaggio di Richie, che nel libro è caratterizzato molto bene, con mille vocine e sotto-personaggi buffi, e per cui hanno scelto l’attore più noto (per Stranger Things), Finn Wolfhard. Ebbene, il personaggio è in effetti sboccatamente divertente, ma molto banalizzato e appiattito rispetto alla fantasiosa idea originale: francamente pare che non sia stato fatto alcuno sforzo per sviluppare il personaggio.

Questa prima metà si concentra sulla parte ambientata nell’infanzia dei protagonisti (ambientazione anni ’80 in questa versione per renderla più contemporanea) ed il film in sé si può considerare carino: nella misura in cui l’opera di King è in realtà un grande e corale romanzo sull’infanzia e la bellezza dell’estate giocando con gli amici all’aperto e sull’importanza della grande e vera amicizia, ecco che questo film centra abbastanza il bersaglio, offrendo una pellicola molto comica e divertente.

Tuttavia, It non è i Goonies e questo film non era un remake di “Scuola di Mostri”, come si potrebbe essere portati a pensare quando si esce dal cinema…

It ha una seconda componente che è quella dell’orrore: sia l’orrore cosmico e assoluto, nel senso più Lovecraftiano (che il romanzo omaggia), sia quello delle paure inconsce, delle piccole psicosi, che globalmente investono il sistema sociale e diventano un ricambio costante di impulsi con il substrato urbano. Perchè, infatti, nella visione di King, alcuni posti sono il male e il male crea i luoghi e le persone, se non sai affrontarlo (e qui mi limito a una parola, con tutti i simboli e le metafore, anche filosofiche e religiose che seguono: “tartaruga”. Simbolo ben presente nel film, anche se buttato in mezzo un po’ a casaccio).

Su questa seconda componente il film penso manchi clamorosamente il bersaglio: qualche scena d’effetto c’è, ma in generale la storia si discosta da quel clima di terrore che aleggia nelle pagine e nella versione anni ’90, offrendo a tratti splatter fine a sé stesso, ma calando di intensità e atmosfera.

Soprattutto, è il finale a deludere, e qui segue un piccolo SPOILER…

Ho detto SPOILER…

Soprattutto il finale scivola in un clamoroso ennesimo “tarallucci e vino” in stile USA: Pennywise – in una sala dove tutti i bambini scomparsi (non mangiati?) letteralmente “galleggiano” (volano?) – viene letteralmente saccagnato di botte dai perdenti, i ragazzini riuniti fra loro, mentre nel romanzo – cosa in cui anche la pellicola anni ’90 aveva fallito – c’è una poetica visione di un rito magico per instaurare un legame mentale con il mostro e distruggerlo sconfiggendo le paure nel legame con gli amici e gli affetti profondi. Una metafora perfetta di quello che nella vita è il continuo duello con i mali e i problemi reali, che nuovamente si perde nella trasposizione su pellicola del libro.

CONCLUSIONE: Insomma, il film in sé è carino, ma non è affatto una trasposizione fedele del romanzo, come ci avevano illuso, e francamente lo ritengo un’occasione persa per fare di meglio, perché davvero il film delude e non convince.

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Valerio Evangelisti – Eymerich risorge – Recensione
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Da pochi mesi è uscito un nuovo capitolo della saga dedicata all’Inquisitore Nicolas Eymerich, dello scrittore bolognese Valerio Evangelisti (Ed. Mondadori). L’Autore sembrava aver concluso la saga del suo primo e più celebre personaggio qualche anno fa, con il libro Rex tremendae maiestatis, ma – dopo alcuni anni dedicati a coltivare altri cicli e opere – ecco che fortunatamente Evangelisti ha deciso di far “risorgere” il personaggio.

Personalmente considero il ciclo di Eymerich come un capolavoro imperdibile, l’opera fantastica più riuscita della contemporaneità (italiana e non) e l’Autore, Evangelisti, un genio al pari di maestri come Lovecraft. Il ciclo di Eymerich auspico sia destinato a segnare l’immaginario collettivo a lungo e questo nuovo libro lo conferma.

La scrittura è come sempre snella ma efficace: Evangelisti ha il dono di saper dosare parole e aggettivi e in poche righe delineare alla perfezione scenari e situazioni, come pochi scrittori sanno fare.

Accanto a Eymerich, in questa storia – vero e proprio revival del ciclo – recuperiamo i principali personaggi della saga, come Padre Corona, il notaio Berjavel, e il boia Gombau, oltre al prof. Frullifer (che segna alcune delle parti più comiche del volume). Sul lato fantascientifico, recuperiamo il personaggio di Lilith, proprio dove il precedente libro si era interrotto.

I rimandi ad altri episodi della saga e a personaggi di altre storie sono numerosi e quasi difficili da cogliere sempre, mentre la storia sviluppa la classica quest con indagini e “spionaggio” dal sapore inquisitorio che è la matrice classica delle storie di Eymerich, accanto a scene più horror e a fenomeni sovrannaturali, ai confini con gli ufo, che strizzano l’occhio al weird.

La sola critica che muovo è che verso la fine il testo appaia eccessivamente sbrigativo e leggermente confuso (v. sotto spoiler): viene spontaneo domandarsi se non sia una precisa scelta che presagisca futuri nuovi libri della saga che, personalmente, aspetterò con ardore.

Lettura comunque consigliatissima!

Link: http://www.librimondadori.it/libri/eymerich-risorge-valerio-evangelisti

Segue SPOILER:

SPOILER

Dal titolo era chiaro fin da subito che Eymerich sarebbe risorto, in tutti i sensi. Il libro è la resurrezione figurata del personaggio letterario, ma nel corso della storia il personaggio del protagonista inquisitore – come immaginabile e preannunciato, in piena logica con il sapore della storia – muore e risorge davvero. Proprio il passaggio tra morte e rissurrezione viene francamente gestito da Evangelisti con un salto, non chiaro nemmeno al protagonista della storia, che ancora meno risulta comprensibile al lettore, al punto da creare una difficoltà di comprensione della trama e bloccare la sospensione dell’incredulità. Insomma, proprio la resurrezione di Eymerich, che dà il titolo al libro, è la parte meno riuscita, più confusa e che solleva maggiori domande (non risposte) di tutta la trama. Un vero peccato!